sabato 31 luglio 2010

Programmi, propositi, progetti &Co.

E ora basta parlare del passato e del presente. Vorrei finire il mese slittando un momento al futuro. Non so voi neo-trentenni, ma io mi sento così irrequieta. Stanotte mi sono addormentata alle cinque. Sveglia come un grillo a pensare a tutte le cose che non ho fatto, sono collassata di colpo con l'immagine viva negli occhi di quelle che devo ancora fare. E mi sono svegliata tardissimo, con il sospetto che avrei saltato la colazione e che forse quelle cose non le avevo desiderate abbastanza.

In conclusione, ho affogato comunque tutte queste belle immagini in una, (due) tazzine di caffè e ho iniziato a dedicarmi al futuro. Allora partiamo con un'altra infornata di propositi.

Lascerei perdere tutti quegli insani progetti alieni tipo: sposarmi, fare uno o più bambini, lavorare a tempo indeterminato, guadagnare un sacco di soldi, comprare un'automobile...

Non esageriamo. Queste poi mi sembrano oggi parole vuote, in tutto simili a: voglio perdere il senno, ritrovarlo sulla luna, costruirmi una casa sugli alberi e non scendere per tutta la vita, allenare il mio organismo a nutrirsi con il plancton, diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti d'America, vestire alla marinara anche in inverno e altre amenità, e altre cose che comunque non farò mai più.

Avevo in mente programmi più credibili, ad esempio: voglio sentire, per tutti i miei trent'anni, quella sensazione che non ho mai capito da quali organi interni esattamente provenga, quella che ti entra dentro quando metti i piedi nel mare dopo un anno di città, quando ti arrivano certi sguardi belli e inequivocabili, quando trovi la parola giusta, la voce giusta per dire quello che devi dire e vedi che l'interlocutore o il lettore ha capito, l'ha sentito anche lui, la parola l'ha trafitto come una freccia di cupido.

Ecco sì, vorrei sentire e far sentire queste sensazioni nette e precise, affilate e a volte anche vaporose, languide, così felici da doversi fermare a ripensarci. Sedersi su una sedia e dire: oddio, però è bello vivere. E tutto questo sappiate che è catturato e mal custodito dentro di me e ha voglia solo di essere sguinzagliato fuori. Queste emozioni sono come carcerati dentro di me che hanno pagato la loro pena e ora sono di nuovo in libertà, vogliono costruirsi qualcosa di proprio, di solido nella loro città.

Ecco, sì, vorrei che questo anno che viene sia una costruzione totale, di cui io stessa possiedo le autorizzazioni necessarie. Vorrei anche sentirmi stanca, aumentare gli impegni, prendermi il diritto al divertimento, andare fino in fondo e alternare lavoro e festa, serietà e idiozia, concentrazione e nuoto in dolcissime acque chiare e fresche. E poi vorrei sentirmi al sicuro con le persone della mia vita. Vorrei potermi fidare e rendermi affidabile. Vorrei scambiare fiducia e affetto con queste persone. Vorrei che le cose che per me contano non cadessero più nel vuoto, vorrei stringere mani, creare consuetudini, fare passi avanti.

Mi sento come il personaggetto di un video game degli anni Ottanta che scalpita per passare al livello successivo.

E poi volevo dire un piccolo grazie ai 30 lettori fissi di questo blog :) uno per ogni anno della mia vita. Come si dice pochi ma veramente buoni. E grazie anche a quelli occasionali e gli una tantum che arrivano da queste parti cercando cose come "rovesciare il caffè" o "tazzine quadrate".

Credeteci o no, siete tutti molto, molto, molto importanti per me!

E buon week end, per un agosto migliore!

venerdì 30 luglio 2010

Compleanno.

Lunedì parto per la Sicilia ventinovenne e tornerò poi a Torino trentenne. Sono molto felice per le vacanze, ma fino a qualche minuto fa ero un po' preoccupata per il compleanno.

Nelle ultime settimane si è abbattuto sulla mia vita quotidiana uno strano silenzio. Uno strano senso di sospensione e di attesa che si dirama su tanti fronti della mia esistenza, su quasi tutti. In questo vuoto, in questa inconsistenza, in questa incertezza cosmica, ho comprato l'ultimo numero di Vanity Fair con la discussa intervista a Roberto Saviano. Leggendo, ho anche pensato che lui ha un anno più di me, è un ragazzo come me. Malgrado lui stesso, malgrado la sua stessa volontà, molti lo definiscono un eroe. E tra questi ci sono pure io. Fin da subito, quando è uscito Gomorra, ho pensato questo. Ho riconosciuto il suo coraggio di dire la verità come qualcosa di assolutamente fuori dall'ordinario. Mi ha sbalordita la sua grande assenza di paura, in un mondo costellato di micro paure. Paure di prendersi stupidi rischi, minime responsabilità, paure di sbilanciarsi di un millimetro, di tradirsi, di fare un passo falso, figuriamoci di perdere la vita per aver detto le cose come stanno.

Così come fin da subito ho capito che la mia posizione del mondo si trovava all'esatto opposto della sua. Mi sono sentita come un imbianchino che dipinge le pareti con l'acqua anziché con il colore. Invisibile. Innocua. Trasparente. Ma anche tutto sommato al sicuro, nell'indifferenza generale, e soprattutto libera. A conferma di questo, leggo una sua frase che, ad ascoltarla bene, rivela molto sulla sua vita di prima (forse non poi così felice) e di dopo Gomorra: "Io per anni non ho festeggiato i miei compleanni. Ma da quando sono blindato rimpiango tutti i compleanni mai festeggiati".

Mi sembra una frase piuttosto generosa e compassionevole. Indulgente e amorevole verso chi non è Saviano, verso noi che non abbiamo il suo coraggio, ma siamo in possesso dell'unica cosa che a lui oggi manca, cioè la libertà. Nell'intervista dice anche che gli mancano le passeggiate mano nella mano, le fritture di pesce a Pozzuoli, vedere suo fratello alla luce del sole. A lui mancano queste piccole cose, a me qualche minuto fa mancava il richiamo a un significato netto della vita, consistente e profondo, costante soprattutto. Adesso mi si è chiarita almeno una cosa: se non un significato, io avrò di certo un compleanno. Una piccola festa, vedere un'amica che è come una sorella, passeggiare sotto il sole mano nella mano con il mio fidanzato, mangiare pesce in bella mostra, senza nascondermi.

Allora l'8 agosto, il giorno del mio trentesimo compleanno, proverò a fare tutte queste cose contemporaneamente, cercando di sentirle ancora di più, di apprezzarle doppiamente, di valorizzarle anche per lui, per questo straordinario, rarissimo eroe dei trentenni e delle generazioni future.

giovedì 29 luglio 2010

Correre correre correre.

Ad esempio, correndo si scopre che:

- ci sono persone che dormono sotto gli alberi, e lì hanno la casa.

- a mezzogiorno non corre nessuno.

- i piccioni a mezzogiorno mettono le chiappe sotto l'acqua delle fontanelle e fissano il vuoto.

- i bambini nelle culle si mangiano i piedi di continuo.

- cadono le foglie già a fine luglio.

- la felicità può anche coglierti alla sprovvista e passare dal cuore al resto e viceversa e lasciarti lì come un sasso liscio privo di pensieri sotto il sole giaguaro.

- l'amore tra fiori e calabroni è imbarazzante.

- hey le gambe fanno parte di te.

- tu sei una cosa sola ma anche altre mille.

- senti che arriverà l'autunno inevitabilmente.

- anche la persona più pallida della terra può diventare paonazza in pochi minuti.

- il sangue scorre nelle vene, rosso e caldo.

- hai fame. la fame di quando avevi dieci anni. sei ancora tu, vent'anni dopo.

mercoledì 28 luglio 2010

Piscina.

Vorrei una cuffia come questa. Ma non la vedo fattibile.

Tuttavia, quello che volevo solo dire è che in piscina si sta bene. Non costa tanto fare nuoto libero. In compenso la sensazione è un po' come correre: quando mi avvicino timidamente alla vasca ho un moto d'angoscia e di terrore, forse esito di traumi infantili depositati nelle cellule dei piedi che vorrebbero solo fuggire al più vicino chiosco e pietire un toast più succo di pera.

Invece poi una volta dentro...

Si scivola bene nell'acqua, con i velocisti che ti sorpassano e ti doppiano e ti triplano, ma non importa. Mi sento viva. Sembra un modo di dire, una frase fatta scagliata lì per dire. Ma ad ascoltarla bene - mi sento viva - noto che è lo specchio lessicale della verità. Della mia verità di oggi, almeno. Così, tra una bracciata e l'altra, mi sembra di conquistarmi il mio spazio nel mondo e quel sano intontimento tipo bicchiere di sangria a digiuno.

I torinesi lavorano.

Premetto che la mia vita al momento sconfina nel surreale. Tutto mi pare sospeso nel vuoto. Immersa in un metaforico liquido colorato mi cullo dalla mattina alla sera, non fatico ma non mi riposo, non lavoro ma non sono neanche in vacanza. Ho mille cose da fare ma la sensazione di tempo libero che scorre nelle vene, di tempo autogestito malgrado me. Sono completamente felice senza una ragione, quando dovrei forse invece preoccuparmi per il mio destino.
E viceversa.

Fluttuo nel giallo delle pareti di casa che si scambia raggi di luce con l'esterno giallissimo della città, sotto il cielo più azzurro del mondo. L'aria è fresca, mi sento in forma, mancano pochi giorni ai miei trent'anni ma è letteralmente impossibile immaginare cosa ne sarà di me, anche solo a settembre. Vivo come se non avessi un futuro, né un passato. Solo un immane presente. E non capisco se va tutto bene o tutto male. Se posso godermela o stare in guardia. La progettualità nella mia esistenza al momento è ridotta all'osso. Potrei costruire e disfare mille scenari come con i mattoncini di Lego all'infinito, e non giungerei comunque a una versione chiara di quello che potrebbe succedere.
Allora in questo istante me ne sto qui ferma davanti al pc. Davanti allo schermo. Se non scrivessi, stringerei i pugni, non troppo forte né troppo piano, in attesa.

E quello che sento intorno a me è questo continuo rumore di sottofondo. Un rumore solido, ritmato, costante. Il rumore bianco dei torinesi che non mollano mai, che lavorano. Dalle sei di questa mattina tutto il vicinato lavora. Scartavetrano, piantano chiodi, potano piante, bagnano fiori, svitano bulloni, avvitano viti, raschiano muri, traslocano, cigolano, spostano, raschiano, sgommano, martellano, segano legname, piallano, stuccano, cazzuolano. In strada, nei cortili, nelle case, non smettono. Non fanno pausa. Non conoscono il silenzio né la pace dei sensi, né l'ozio.
Lavorano, lavorano, lavorano.

martedì 27 luglio 2010

Run baby run.

Correre nel parco è bello perché dopo l'iniziale fatica - in cui in genere stento a capire dove finiscono le mie gambe e dove inizia il cemento armato - mi sembra di entrare in un'altra vita. Come affacciarsi a piccoli balzi in un altro mondo, abbagliati dalla luce calda, gialla e diffusa ovunque. Il sole picchia diretto sulla faccia ed è come una voce che ti dice: non ti fermare, non ti fermare. E di questa incitazione c'è bisogno in grandi quantità durante una corsa, specialmente per chi, usando un pietoso eufemismo, "non è allenato", come me. La prima volta, dopo sedici minuti, sono stramazzata al suolo gemendo e implorando di riportarmi a casa, non prima di aver pregato in ginocchio di poter usare subito il mio Ventolin. L'ultima volta, ieri, ho invece respirato bene dall'inizio alla fine e dopo la corsa ci siamo anche fermati in un laghetto a guardare le papere e le tartarughe (!).

Questo per me è il fascino del cambiamento. A me piacerebbe molto cambiare, migliorare. Ci provo sempre, ma è sempre stato così comodo e rassicurante restare nel proprio cono d'ombra, nei propri antichi difetti, nelle proprie solide difficoltà. Ed è così difficile al contrario farcela. Molto più di quel che si pensa. Ad esempio darsi un tempo nella corsa e rispettarlo. A me viene l'ansia a un certo punto. Mi si gela il cuoio capelluto, le braccia si tramutano in soffici marshmallow avvitati di cui perdo completamente il controllo nervoso, mi fa male la milza. Ma poi adesso resisto. Lo trovo uno sforzo disumano, in quei momenti mi viene quasi da piangere, da sedermi finalmente su una panchina accanto alle nonnette incartapecorite, ma invece poi ultimamente continuo. Perché ho capito che correre ti conferma che è possibile superarsi, sfidare i propri limiti e vincere. E quando finisce la corsa e metti tutta la testa sotto la fontanella e ti tiri su e vedi che il parco è ancora lì, con i cani che giocano e le foglie che si muovono al vento, ed è stato testimone silenzioso delle tue prodezze, del tuo piccolo cambiamento, è una sensazione indescrivibile.

Guardi tutto con occhi diversi. Ti senti forte.
Prima di decidermi a correre ero così scarsa da non riuscire quasi neanche più a fare le scale in salita. Come chiamarlo? Decadimento fisico? Disfatta? Premorte? Ritiro sociale? A neanche trent'anni forse sì. Ma poi mi sono ricordata che ero viva pure io, e che avevo due gambe, e che con loro dovevo e volevo e speravo di percorrere ancora un lungo pezzo di strada. E così mi sono messa a correre. E per mia fortuna sono anche in buona compagnia.

E comunque adesso la prendo sul serio questa cosa della corsa. Anche perché è strano: prima di cominciare sono sempre puntualmente di pessimo umore, anzi no, sono sempre spaventata da qualcosa. Triste, ma di più: preoccupata. Demoralizzata, in preda a visioni catastrofiche sul futuro. Dopo la corsa invece la musica cambia. E non credo si tratti di un miracolo, bensì del frutto di nuove energie che sono costretta a utilizzare. E queste energie sono mentali prima ancora che fisiche. Correre e arrivare fino alla fine è come la dimostrazione pratica del concetto stesso di futuro. Cioè che nonostante le asprezze e lo sconvolgimento della corsa in sé, si può andare avanti, si può tracciare un percorso con i propri piedi, con i propri pensieri. Si può riuscire in un intento, raggiungere un obiettivo, perseguire un proposito e tutte quelle cose che rendono la vita un po' più interessante.


sabato 24 luglio 2010

Letturedomenicali+tazzinadicaffè.

Anche se è ancora sabato sera, sento già l'euforia da letturadomenicale :)

La tazzina non c'è. Al suo posto, un bicchiere di latte freddo, che fa molto telefilm anni Novanta. Sì, un po' di euforia perché domani andiamo in piscina con alcuni amici. Per questa piccola gita ho voglia di portare un libro nuovo. Nuovo in molti sensi della parola. Cercavo qualcosa per sorprendermi, per entrarci dentro e dimenticare la mia realtà, per scoprire e visitare un mondo diverso dal mio, ma restare anche vicina ai miei stessi rassicuranti punti di riferimento, per sentirmi al contempo un po' a casa.

Cercavo uno stile fresco e chiaro, ma anche solido, fitto e deciso. Cercavo una novità, ma che affondasse le radici in un territorio che a me piace molto frequentare, quello della letteratura angloamericana. Cercavo tutte queste cose, e ho trovato un libro: Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra, di Claudia Durastanti, editore Marsilio.
Questa scrittrice è giovane - 1984 - ed è un'esordiente. Ma non finiscono qui le cose interessanti di lei. Dal risvolto di copertina si scopre che è nata a Brooklyn e che ora vive a Roma e scrive per la rivista Reset e per IndieForBunnies. Mi sembra davvero un'autrice da conoscere. Una voce americana che scrive in italiano e ci restituisce un'atmosfera totalmente USA raccontata nella nostra lingua, in un'esperimento che promette molto bene. La copertina poi mi piace, mi mette di buonumore.
L'ho iniziato, mi ha convinta subito. Otto personaggi, trent'anni di storia americana.

Lo porto con me in piscina. Buona domenica e buona lettura a tutti.

Adesso.

Ci sono momenti in cui il fuori corrisponde al dentro in modo eclatante. Ad esempio adesso. Mi affaccio al balcone e penso it's oh so quiet! E vedo il mio solito panorama completamente immerso in un bagno di sole. Il vento di ieri sera ha portato via il caldo appiccicoso e adesso continua a spettinare le piante come una carezza.
Mi sembra tutto così giusto e ben temperato.
Un po' è come se la luce dei miei occhi si unisse alla luce generale che illumina come un'esclamazione di felicità questa Torino di fine mese. Più che felicità, forse quiete dopo la tempesta. Penso tante cose, e una per una, insospettabilmente, queste iniziano a determinare la realtà circostante. Ma non è una magia, bensì una piccola porzione di serenità che auguro sinceramente anche a tutti voi che leggete, e che vi possa accompagnare almeno per tutto il week end!

venerdì 23 luglio 2010

How to...

A colpi di tazzine di caffè, il risultato qui è che o non si dorme (vedi post precedente) o si fanno brutti sogni (vedi stanotte). All'insonnia avrei trovato un mio personale rimedio, che è quello di non dormire affatto. Mentre per i brutti sogni, o meglio per quella sconfortante sensazione del risveglio, ci vogliono soluzioni complesse e articolate.

Segue un piccolo elenco di primo soccorso su Come allontanare la pessima sensazione dopo un brutto sogno:

1) Caffè. Caffè. Caffè.

2) Non restare per nulla al mondo in pigiama, anche se siete in vacanza. Vestitevi subito.

3) Andate fuori di casa, immediatamente.

4) Recatevi al negozio per comprare la cartuccia della stampante. O azioni similari.

5) Temperate matite.

6) Recatevi in un luogo ventoso, immaginando che l'aria fresca porti via i brutti ricordi.

7) Sfogliate il giornale.

8) Andate in bici su una lunga pista ciclabile.

:)

giovedì 22 luglio 2010

Alba.

Amici di Tazzina (mah, sembra un po' "Bella di Padella", comunque accontentiamoci :), questa è l'alba dal mio balcone. Questa è l'alba torinese, di un pezzo di Torino, quel piccolo pezzo che si vede da casa mia. Sarà che manca pochissimo ai miei trent'anni. Sarà l'estate. Sarà il frinire (con la "r") di qualcosa dentro di me. Ma ultimamente dormo poco. I vent'anni erano rotondi, pieni, umidi, promiscui e fallibili. Questi trenta si presagiscono invece molto asciutti, netti, decisi, filiformi, spietati, rocciosi, perfetti e completamente privi di sonno. Mi sento così, come quella centrale illuminata nel buio. Come quelle piccole luci sulla collina nera. Come quelle linee rosa sopra gli alberi assopiti. E poi qualcosa mi dice di stare sveglia. Di aprire gli occhi, come si sta aprendo il cielo in questo momento. Di aprirli perché chiaramente ho molte cose da fare, da pensare, da capire. Perché la mia strada per qualche ragione è ancora frastagliata e sento il bisogno di spianarla e di accelerare i lavori in corso. E infatti sono qua. Ogni centimetro di me è pronto a coglierne i segnali, pronto a non cedere mai alla tentazione di rinunciare, di sconsolarmi. Una sana tazzina di caffè mi tiene compagnia in questi impegnativi propositi, come anche la luce che adesso si sta diffondendo bianca su tutta la città.

mercoledì 21 luglio 2010

Mishna Wolff su Indie Riviera.

Buongiorno :)

C'è una scrittrice che mi piace davvero tanto perché ha scritto un libro sincero e ironico, colorato (!), spietato e divertente, molto divertente. Perché ha messo nero su bianco (aha) la sua storia di bambina e poi adolescente bianca, anzi bianchissima immersa nella vita di un quartiere nero e povero di Seattle. Questo è un libro con tante possibilità di lettura, tante sfumature diverse.
Se volete, qui, su Indie Riviera, c'è una recensione che ho scritto, sempre sorseggiando una tazzina di caffè. Buona lettura a tutti!

martedì 20 luglio 2010

Raccon-tiny.

Sveva - questo il suo nome - preferiva passare molto tempo da sola. Le circostanze che lei stessa aveva creato nei suoi trent'anni di vita ormai lo consentivano. Erano circostanze ingloriose, che per chiunque avrebbero portato un solo nome: "fallimento", ma che per Sveva andavano bene. Aveva imparato a dimenticare l'ambizione e la dignità come si dimenticano gli ombrelli nei tram o nei negozi appena smette di piovere.

La mattina era la parte migliore della giornata, Sveva si alzava presto e preparava il caffè. Poi si metteva davanti al computer. Le dieci, le undici, mezzogiorno. Tutto tranquillo.

Il peggio era l'ora di pranzo.

Sveva - questo il suo problema - aveva paura degli sguardi. Il terrore. Uscire di casa le restituiva proprio quella enorme controindicazione: di incrociare gli sguardi. Anche se i peggiori non erano degli estranei, bensì della gente conosciuta. Amici, parenti. Chiunque per Sveva possedeva i poteri di Medusa, cioè di pietrificarla con gli occhi. Quegli occhi, gli occhi degli altri, diventavano molto importanti per lei. Ne era attratta, anche. Rotondi, vitrei, colorati Sveva li amava, come le biglie della sua collezione. Al tempo stesso erano per lei la fonte dell'orrore e dell'abisso.

A ogni sguardo Sveva abbassava la testa, che si riempiva di colpo come di un gelo freddissimo fatto di piccoli aghi di ghiaccio. Così era costretta a scappare e a diradare qualsiasi contatto umano. Quegli occhi la costringevano a rimanere immobile, a bloccare ogni muscolo e a neutralizzare ogni espressione del viso, come un cucciolo di gatto sotto la morsa della madre sulla collottola.

Il pomeriggio era un po' come una decompressione. La stanchezza di questa fuga dagli sguardi si faceva sentire, e Sveva allora si accucciava sul divano e dormiva. Con il computer sempre acceso sulla pagina della posta elettronica, perché è solo così che poteva comunicare.

Al secondo risveglio della giornata, verso le cinque del pomeriggio, Sveva sentiva una grande fame. Apriva il frigo e prendeva lo yogurt. Faceva merenda di fronte allo schermo, a guardare le immagini fisse delle fotografie degli amici.

E poi la sera. Dopo cena Sveva finalmente chiudeva un po' gli occhi. E immaginava che esistesse uno specchio per guardare negli occhi senza essere vista. E subito dopo immaginava di essere al cinema. Sperava che un uomo le prendesse la mano. E poiché era buio e c'era il film, poteva evitare il suo sguardo, senza rischiare di essere fraintesa, di essere quella che "ha qualcosa da nascondere". Perché solo al cinema poteva guardare dritto di fronte a sé con una buona e nobile ragione.

lunedì 19 luglio 2010

19 luglio 1992.

Impossibile dimenticare quel giorno. Stavo facendo i compiti delle vacanze, ho alzato la testa e visto la tv. Ricordo lo schermo oscurato con delle scritte che scorrevano, ma potrei sbagliare visto che è passato molto tempo. Quello di cui sono sicura, è il vuoto che ho sentito dentro la testa, come se si gelasse, come un forte spavento. Anche se ero solo una ragazzina, potevo intuire la gravità di quel fatto. Reso ancora più ineluttabile a così breve distanza dalla strage di Capaci.
L'estate porta sole e mare ma anche quella consapevolezza che non c'è stata pietà per la giustizia, che bisogna lottare affinché non succeda di nuovo.

domenica 18 luglio 2010

Letturedomenicali+tazzinadicaffè.

La tazzina c'è. Ed è estate. Di quelle estati lunghe, lente. Di quelle domeniche in cui il sole è così forte che sembra quasi ghiacciare le cose, gli alberi, la città. Di quelle estati convulse, piane, corroboranti, di sensazioni che vanno e vengono come spumose e verdi onde marine.

Così è qui, in questo clima, che resto immobile e lascio andare la memoria. Ricordi di letture estive, le più importanti, quelle letture eterne, in cui l'intera giornata trascorreva sulla pelle, fresca e asciutta la mattina, caldissima in pieno giorno e piena di brividi imperterriti verso il tramonto. Mai senza staccare la testa dalle pagine.

E torno indietro ai primissimi libri. Quelli che mi avevano lasciata senza fiato, intontita. Quelli che si schiudevano come mondi nuovi, tridimensionali in cui entrare del tutto dentro, senza lasciare sulla terra neanche un capello. E dove si muovevano i primi passi cauti della consapevolezza, come il primo uomo sulla luna.

Penso a L'idiota, di Dostoevskij. Sarà stato il 1993/94 a tredici/quattordici anni, non ricordo più bene. Come non ricordo quasi nulla del romanzo. L'unica cosa che ricordo è che è stato il mio Primo Libro, e da allora non sono più la stessa.

Buona domenica e buona lettura a tutti :)

venerdì 16 luglio 2010

No, così.

No, così, la vita scorre. Prima sono entrata in un negozio. La commessa aveva voglia di dirmi che si sposa a fine luglio. Io di dirle che avevo paura che l'estate non finisse mai. Ci siamo un po' sfogate, come si dice. Faceva fresco lì dentro. Non volevo più uscire, volevo stare lì, l'aria profumava. Lei voleva parlare del suo addio al nubilato, io dell'altra mia paura, quella di perdere tutto da un giorno all'altro. Poi lei voleva dirmi che è contenta della festa che le hanno preparato le amiche, che è emozionata. E io dell'altra mia paura ancora, quella di non realizzare mai i miei desideri. Però poi niente, sono uscita pagando e dicendo solo "in bocca al lupo".

Ma tornerò, e chiacchiereremo ancora. E la vita andrà avanti. Ancora e ancora.

Rassicurazioni.

Una volta (ma quando? direte voi), qualche anno fa, avevo lo stesso bisogno di rassicurazioni che ho oggi. Ma quello che mi mancava era il coraggio di chiederle e di rivolgermi alle persone giuste. Penso che in molti potranno capire quello che dico. Se invece appartenete alla fortunata schiera dei "sicuri", smettete immediatamente di leggere e preparatevi all'aperitivo, con le mie felicitazioni perché sanamente vi invidio un po'.

Tornando a noi. Ecco: un tempo avevo sempre questo bisogno ma non trovavo mai il modo giusto. Chiamarmi "maldestra" era farmi un complimento. La situazione era disastrosa. Mai un giro di parole chiaro, mai una mossa azzeccata, mai un punto B da raggiungere partendo linearmente da un punto A. E ogni sfera della mia vita, credetemi, ne risentiva. Oggi non è cambiato un gran che per certi versi, però sto imparando a chiedere le rassicurazioni che mi servono, e a farlo nel rispetto dell'interlocutore. And sapete cosa? Va un po' meglio. Ci sono persone in giro, anche nella insospettabile Torino, ma non solo, che mi capiscono.

Che vi possono capire, cari insicuri, se trovate le parole giuste. Se spiegate che non siete matti, cattivi o stupidi. Se siete sinceri. Non è difficile. Se volete io potrei farvi da Cyrano i primi tempi in cui deciderete di provarci. Vi potrei aiutare, visto che ho capito che il mondo là fuori non sempre è lì pronto solo a sbranarti e a umiliarti. C'è chi è invece pronto a capire, spontaneamente. E io a queste persone dico grazie, anche se non so se mai leggeranno queste righe.

giovedì 15 luglio 2010

In azione.

E a testimonianza che dico il vero, ecco l'apparato iconografico del post precedente. Tazzina-housewife in azione (notate il look e l'acconciatura casual). Insieme ai miei più fedeli alleati: la "triade".

:)

Casalinga.

Per cause tecniche, il mio rientro al lavoro che facevo al mattino in ufficio è slittato, e incrocio le dita perché questo tempo sia il più breve possibile e che il ritorno avvenga davvero.

Anche i miei altri lavori da free lance, dopo un momento intenso in primavera, sono in pausa. E anche in questo caso spero che le attività riprendano al più presto, come spero anche in nuove occasioni.

Queste intime confidenze per dirvi che è dura per me reggere. L'insicurezza, le crisi di abbandono, la fragilità emotiva sono i miei peggiori nemici da sempre, e solo ora posso dire di essere in vantaggio rispetto a loro. Sono lì - i miei nemici - stesi al tappeto col naso rotto, e la mia unica preoccupazione è adesso che non si rialzino a tradimento, mostrando risorse insospettabili.

Tuttavia: il rischio tristezza - con questo caldo e in questa particolare città - è molto alto. Per un attimo ho pensato di ripiegarmi in sconfinati pianti di fronte al pc o solitarie mummificazioni sul divano. Perché il difficile della vita, almeno della mia, non è tanto fare le cose col rischio di sbagliare, bensì l'attesa. E non l'attesa di un evento certo, bensì l'attesa di qualcosa che non si sa se accadrà. E quando questo qualcosa si chiama lavoro, la posta in gioco diventa altissima. Ed è proprio qui che servono la forza d'animo, la resistenza fisica, l'equilibrio mentale. E ovviamente la fiducia in sé, nelle proprie energie, nelle proprie facoltà di miglioramento e di costanza. Nonché la fiducia nel mondo.

Così oggi ho avuto l'intuizione. Se si vuole che le cose accadano, bisogna essere sempre pronti all'evenienza. Ho capito che è meglio tenersi in forma nella mente e nel corpo, perché non si sa mai. E a volte le cose falliscono anche perché si era perso troppo tempo a struggersi prima, nella famosa attesa, e all'eventuale momento buono si arriva sfatti, abbruttiti. Le competenze, in queste fasi di stallo protratto, rischiano di sfumare via e dissolversi, quindi ho capito che bisogna allenarsi continuamente.

Inoltre, e qui arrivo all'intuizione, alzando un istante la testa dalla propria involuta stagnazione, ecco apparire la sola e inconsapevole testimone del nostro sconforto: la casa. Queste quattro mura ignorano i nostri problemi, sono come i bambini piccoli e hanno bisogno di molte attenzioni e di cure continue.
Allora ho deciso. Prima di tutto ho deciso di sperare, di non arrendermi, di aspettare con calma le risposte e di rendermi sempre disponibile al lavoro. E successivamente - almeno per oggi - di fare la casalinga (non) disperata a tempo pieno.

A vostro beneficio, ecco allora il programma della mia giornata:

- stendere amorevolmente i panni.
- stirare.
- finire di imbiancare un pezzo di muro.
- lavare la cucina.
- lavare i vetri.
- comprare il pane, il latte e il giornale.
- cucinare.
- leggere.
- dormire il sonno dei giusti.


:)




mercoledì 14 luglio 2010

Nadine Gordimer.

Vorrei segnalare,
qui, una bella intervista al premio Nobel Nadine Gordimer, uscita sulla Stampa di oggi. All'ultima domanda: "Molti temono che il Sudafrica imploda: condivide queste paure?", lei risponde:

"Io mi considero un'ottimista realista. Abbiamo problemi enormi da risolvere, ma siamo riusciti a superare condizioni terribili nel passato. Ci stiamo evolvendo e penso che abbiamo ancora una chance di farcela".

Che lezione di vita.

I piccoli mali del mondo.

Sono un po' giù. Non è che se una ha un blog con le nuvolette e i fiorellini può sempre essere di buonumore. E in effetti, se leggerete il seguente elenco, non mi chiamerete più tazzina di caffè, bensì tazzina di cianuro. Oggi mi sento così, ma speriamo in un domani migliore.
Ecco allora l'elenco delle cose che oggi mi danno fastidio:

- rovesciare il caffè di prima mattina e fondere la tovaglia.
- il termometro che segna 30 gradi.
- fare un bel sogno e scoprire che non era vero al risveglio.
- i contratti a progetto.
- l'inedia (attenzione, non è la pigrizia, è la malnutrizione, mentre noi siamo qui a mangiare, la gente altrove "muore di inedia", e c'è chi pensa: perché non hanno niente da fare. Ennò. No no).
- il "gruppo Albatros" (oh mio dio: la sua pubblicità vista in TV mi ha freddata).
- il cassonetto dell'immondizia pieno.
- le macchie che non vanno più via.
- le emozioni forti negative, come la paura o il dolore.
- la sfiga, la jella, i talismani, le maledizioni e il malocchio.
- i pettegolezzi.
- la tosse, l'asma, la dispnea e tutti i problemi respiratori psicosomatici.
- le inibizioni nel dire le parolacce (eccheccazzo, basta!).
- il mistero.

martedì 13 luglio 2010

Esercizi di sopravvivenza/14.

Oggi pensavo a quante persone della mia età, nate negli anni Ottanta o poco prima, ancora associano il concetto di lavoro a quello di dignità. E ho capito che questa è una chiave di lettura importante per la "nostra generazione". All'epoca dei nostri genitori era normale lavorare. E solo pochi restavano a casa ed erano rarità. Quando le persone di quella generazione perdevano il lavoro, andavano in depressione. Si chiudevano in casa nel letto o sul divano. Qualcuno moriva dentro, altri anche fuori.

Ora.

Se è provato, ad esempio, che alcune nostre paure - insetti, buio, animali feroci - sono un retaggio rimasto incastrato nel nostro cervello dal passato, dall'uomo primitivo, per lo stesso principio intuisco che anche per abituarci alla precarietà ci vorrà molto tempo, chissà forse ere geologiche.
E così ecco che mentre cambia il lavoro, mentre scadono i contratti, magari dopo anni di abitudini e assiduità (è il caso di una mia conoscente di 35 anni che lavorava da 5 in una ditta, si era presa una casa in affitto da sola e adesso è scaduto il contratto e torna a vivere con i genitori), mentre le paghe sono drasticamente diminuite, ma non il familismo, mentre cambiano le leggi, regredisce la condizione della donna, saltano le regole della maternità, il nostro cervello ancora risponde invece a stimoli antecedenti, consolidati.

Quante persone della mia età sto vedendo depresse.

Depresse, allo scadere di un contratto. Una volta i contratti non scadevano. Una volta si cresceva in azienda. Mi viene in mente la storia di una mia amica che ha iniziato uno stage in un momento molto, molto difficile della sua vita personale. Non era al massimo delle sue capacità, anzi spesso commetteva errori. Allo scadere del secondo contratto - dopo un intero anno di lavoro - è stata mandata via. E io credo che in passato una cosa del genere non sarebbe successa, ad esempio negli anni Ottanta. Oggi è meno contemplato l'errore. Conta la performance del momento, se sbagli sei fuori. Se hai problemi tuoi, sei fuori. (tanto puoi sempre trovare un altro stage). Quante persone della generazione precedente invece mi raccontano di essere state "accolte" in azienda. Di essersi evolute all'interno, di considerare i colleghi quasi come una seconda famiglia.

Quindi l'esercizio di sopravvivenza per i miei coetanei trentenni è questo: sganciamo la dignità dal lavoro. Prendiamo atto che le cose sono davvero cambiate. Che può capitare di trovare un bel lavoro a tempo indeterminato come di non trovarlo mai. Che può capitare di fare una famiglia, come anche no. E non sempre (a volte sì, ovvio), è colpa nostra. A volte è davvero la jungla. A volte è sfortuna. E la sfortuna, come la fortuna, può interferire nelle nostre vite (o fortuna, velut luna...).

Ma questo deve lasciarci intatta la dignità, l'umanità, l'amore e il rispetto per noi stessi. Cavoli è importante.

Mi rendo conto: è un esercizio difficile. Però non può essere tutto facile nella vita. A volte ci sono sfide superiori, e bisogna vincere anche quelle.

Nella pratica: come sopravvivere? Come vivere? Come pagare le bollette?
Ora ci penso e la risposta al prossimo esercizio...

lunedì 12 luglio 2010

Lampadine.

Ieri in casa mia si sono fulminate tre lampadine. Un tempo avrei detto: brutto presagio. L'avrei detto così, tanto per farmi un po' del male. Tanto per riconnettermi il più rapidamente possibile alla mia solita e inesorabile abitudine di precipitare verso le più cupe previsioni. Invece adesso penso - se proprio vogliamo trovarci una metafora - che le lampadine spente di colpo siano esattamente come quelle stesse vecchie abitudini ormai morte. Veri vicoli ciechi che nessuno ha più voglia di imboccare. E poi che sono il segno tangibile che in realtà molta luce è stata fatta. Che molte cose si sono chiarite, chiarificate, rischiarate. E se ancora un po' di buio ci deve essere, che buio sia. Contando anche che è proprio con il favore di certe tenebre che si articolano i sogni.

domenica 11 luglio 2010

Letturedomenicali+tazzinadicaffè.

La tazzina c'è. Bollente e fumante. Anche perché qui piove. Quindi ricapitolando, questa è stata la più estenuante settimana degli ultimi secoli con una media casalinga che oscillava dai 32 ai 33, anche 34 gradi costanti. Settimana in cui non avevo quasi nulla da fare, ma in compenso ero riposseduta da una tosse asmatica e mefistofelica che proveniva dalle viscere della terra e che si intensificava parossisticamente la notte e oggi che è domenica, che si poteva partire per una bella gita rinfrescante in montagna, che avevo anche comprato il prosciutto e il formaggio per fare i panini: piove. Ma piove piove, da ore. E fa anche freddino. Come direbbe Gianfranco Bianco (mezzo busto del tg regionale): la colonnina di mercurio è drasticamente scesa.

Il fatto è che nonostante tutto appena calano un po' le temperature, a me viene una specie di incomprensibile euforia, una specie di gratitudine verso il tempo che ha deciso di cambiare. Quindi non riesco a sentirmi del tutto contrariata. E poi questo cielo plumbeo e natalizio aiuta la lettura, è inequivocabilmente vero. Quindi si comincia.

In questi giorni in cui abbiamo dato il bianco (e il giallo), c'è stato uno smottamento di scaffali e mi è tornato tra le mani un libro che avevo letto nel 2000, a vent'anni. Mi aveva colpita molto la storia di Archie e Samad, e lo stile di questa giovane e bella scrittrice di nome Zadie Smith. Denti bianchi (Mondadori) è il suo romanzo di esordio, un best seller internazionale, fresco, nuovo, intenso. Con uno degli incipit più interessanti e famosi degli ultimi tempi:

"Presto nel mattino, tardi nel secolo, Cricklewood Broadway. Alle 6,27 del'1 gennaio 1975, Alfred Archibald indossava un abito di velluto a coste ed era seduto a bordo di una Cavalier Musketeer Estate, con la faccia riversa sul volante. Sperava che il giudizio divino su di lui non fosse troppo severo".

Adesso ne rileggo qualche pagina, per vedere che effetto fa dopo dieci anni. Cavoli. Non l'avrei mai detto. Dopo dieci anni. Ma per chi non l'avesse ancora sfogliato, lo consiglio davvero, aveva segnato un'epoca.

sabato 10 luglio 2010

Trota.

Non il figlio di Bossi, bensì il pesce. Due trote al cartoccio, comprate al mercato, con sedano, carote e patatine che cuociono in un'altra teglia. Niente di complicato, un piatto semplice, buono, da sabato sera in casa, con un bicchiere di vino bianco fresco.
:) Buon week end a tutti.

Niente.

Quando non c'è niente da dire non si dice. Ecco l'ho detto.

venerdì 9 luglio 2010

Natalia Ginzburg.

"Marino Sinibaldi: Oggi parleremo delle sue commedie. Elsa Morante non era tenera, per esempio con le sue prime commedie.

Natalia Ginzburg: No! Non le piacevano niente, né le prime, né mai.

Marino Sinibaldi: Era molto esplicita, no?

Natalia Ginzburg: Sì; mi ha portato una sera a cena con Adriana Asti e mi ha detto - io avevo scritto Ti ho sposato per allegria - e lei mi ha detto che non le piaceva niente, ma niente, che era fatua, zuccherata. Non le piaceva affatto; e mi sgridava, perché aveva un modo... non era un fare delle osservazioni, era proprio un arrabbiarsi. Diceva: 'Come hai potuto fare una cosa così...?' Insomma mi sembrava di aver fatto una cattiva azione".

(Natalia Ginzburg, E' difficile parlare di sé, Einaudi).

Mitologia, tenerezza, genio, ammirazione, sogno, storia, scrittrici superiori, serie, buffe, umane, generose, inestimabili, oddio, svengo, mi cappotto dalla sedia. Queste cose non smetteranno mai di impressionarmi, sono un nutrimento continuo in questa mia silenziosa stanza gialla. Tutta l'inutilità che a volte intravvedo nella mia vita, magari di notte, infiltrata come un bieco liquido di contrasto tra un colpo di tosse e l'altro, quando leggo queste cose scompare, mi sembra allora che valga la pena vivere per leggere queste e altre lezioni e meraviglie e quindi tra una lettura e l'altra va bene tutto, inutile farsi troppe domande.

giovedì 8 luglio 2010

Insonnia.

Sono qui, non dormo, sono le cinque e un quarto, finalmente un'ora in cui già qualcuno sarà sveglio. Sto vedendo la mattina nascere.

Non sono di quelle persone valorose che lavorano e producono, la mia insonnia è molesta: questa volta è la tosse, altre volte pensieri intrusivi o condizioni atmosferiche, non è mai una scelta, se potessi dormirei. Tuttavia, è bello il cielo che da nero dirada nel violetto e nell'indaco e la cima di un albero altissimo che svetta dalla mia finestra e sembra quel famoso quadro di Magritte.

Ma se dovessi esprimere il mio stato d'animo, penserei questa notte-mattina anche a questa tazza rossa di David Sterenberg.

Ed è così che mi sento. Sento un tonfo al cuore, la necessità di far fronte alla violenza della realtà e al tempo stesso alla sua inconsistenza, che altrimenti mi sfugge completamente dalle mani.

Ora il cielo è di un lilla trasparente. Cambia di minuto in minuto, come certe sensazioni di certe mattine di certe estati. Adesso è rosa tenue, le colline in lontananza si stagliano alla vista, sono apparse di colpo ma morbide nel quadrato bianco della mia finestra, le piccole luci perennemente accese e il più alto ciuffo di foglie di questa pianta che assomiglia adesso a una piccola mano che si divincola in modo così dolce che sembra quasi un discreto, delicato, timido saluto.

E adesso è di un rosa acceso, completamente rosa, si sta infuocando, striato da qualche nuvola celeste. Mi piace pensare che siamo tutti sotto questo tetto rosa, tutta la città partecipa sonnolenta a questo cambiamento di colori. Inizia a passare qualche macchina in più. Forse la solita gente che va nei soliti posti. O magari anche qualcuno che per la prima volta va in un posto nuovo, sotto il cielo rosa, sempre più rosa.

mercoledì 7 luglio 2010

Fuori.

Nonostante il raffreddore, l'influenza, la febbre e altri innumerevoli ed estenuanti mali di stagione (!) e non; esco e affronto la mia città. Torino versione estiva, ossia qualcosa di molto simile all'inferno in terra.

Faccio il mio ingresso nel centro e cosa vedo?

1) L'incidente grave. Una macchina letteralmente cappottata, gli airbag aperti, la gente sbigottita.

2) I non-giovani. Una coppia fantastica. Lui con una camicia da sogno: punteggiata di micro-faccine di Paul McCartney (giuro!). Lei con il cappellino da baseball, la maglia militare, pantaloni larghi al ginocchio, la borsa Eastpak decorata e capelli rosso fuoco. In due superavano i cento anni!

3) L'originale. Una splendida quarantenne, visibilmente impegnata in un lavoro prestigioso (abito elegantissimo, tacchi, faldoni e fogli tra le braccia), però col tatuaggio (anzi due o tre grossi sulle braccia) e la fede nuziale non all'anulare bensì al pollice. Hey, che originalità!

4) Un vecchio amico che non vedevo da otto, forse dieci anni.

5) Una trentenne con lo sguardo perso nel vuoto che non smette di starnutire, soffiarsi il naso e gemere di insofferenza e che a compimento di tale disagevole situazione si rovescia anche tutta la bevanda sui vestiti mentre pranza (hemm, sì sono proprio io).


Estremi.

L'estrema timidezza, scagliata come un sasso da una fionda nella vita, a volte compie un balzo di 180° e si deposita - senza volerlo - nel solco del suo opposto: la sfrontatezza. Ahimé è così vero che quando capita a me in prima persona me ne spavento. Anni passati a cercare da qualche parte, per lo più tasche bucate, quel minimo sindacale di autostima sufficiente alla sussistenza, invano. Anni a sentirsi ripetere le solite parole svuotate di senso: "buttati, osa, credici, mettiti la scollatura, chiedi, telefona, fatti avanti, spacciatela, tiratela, vantati ecc ecc". Ma poi quando si disinnesca la molla della timidezza, è un guaio: fanno immediatamente seguito picchi goffi di grandiosità, che chiaramente stride agli occhi di chiunque. O almeno a un primo sguardo, o a uno sguardo non professionale (mi riferisco alle professioni in ambito "psy").

Così nella stessa persona possono convivere atti di estrema prostrazione, ritiro, vergogna, chiusura, infernale titubanza con espressioni di eccessiva - ma tutta apparente - sicurezza, sicumera, spavalderia, impertinenza, audacia, vanagloria. Guardarsi allo specchio e vedere questa doppia faccia è brutto, viene voglia di cambiare, di riportare tutto all'equilibrio, alla serenità, alla certezza che per qualcuno si va bene così come si è. Personalmente ci sto provando, con tanto impegno.

martedì 6 luglio 2010

Chronic City su Indie Riviera.

Buongiorno a tutti :)
Come promesso, anche questa settimana su tazzina-di-caffè c'è una lettura, ma questa volta la trovate qui!

Cioè su Indie Riviera.

Indie Riviera è un sito/blog di musica indipendente, social network e libri.

L'onda di pixel del suo logo promette già la freschezza, la curiosità e la professionalità con cui il suo fondatore, Francesco, 30 anni, di Rimini, osserva e studia il suo mondo indie di riferimento.

A me quel mondo appassiona e mi ritengo fortunata ad aver scritto questa recensione di Chronic City, di Jonathan Lethem, per lui.

Che bello, sono davvero contenta. E spero che la recensione vi piaccia e vi convinca a leggere il libro. Un romanzo-capolavoro, davvero notevole e pieno di sorprese.

Allora buona doppia lettura!

lunedì 5 luglio 2010

Bilanci.

Eh dunque siccome ho davanti a me sempre questa opalescentissima parete gialla, mi sento strana, mi ricorda qualcosa che non so, avendo ben scarsa memoria, da sempre vivo così, quasi come se ogni giorno mi ritrovassi di fronte a questa parete gialla e lei fosse un foglio vuoto, di nuovo e di nuovo da scrivere in eterno (bello, vero?). E di nuovo tutto da ricominciare, da ripensare. C'è violenza, in questa facilità alla rimozione. Una volta mi piaceva, ora non più tanto.

Comunque ero qui che pensavo - anche se manca ancora un po' al mio trentesimo compleanno - di fare un impietoso bilancio e, non contenta, di renderlo anche pubblico a tutto beneficio degli affezionati lettori di tazzina-di-caffè!

Allora, ecco le cose di me che non sopporto davvero più e che butterei nel cassonetto qui sotto casa senza problemi anche subito:

leziosità, cerimoniosità, titubanza, insicurezza, tremebondità (si dice?), senso di inferiorità, finta e penosa spigliatezza, formalità, paura cronica, confusione mentale e fisica, tendenza a finire le frasi dell'interlocutore facendogli perdere il filo del discorso, sensi di colpa vari, distrazione cosmica, turbamento per un nonnulla, ipocondria, infantilismo e insana passione per i giocattoli, vergogna per qualsiasi cosa, inutili accessi di euforia, sciocca melanconia, facilità a cadere in tunnel di ragionamento, tensione facciale.

Bene, e ora ecco con cosa vorrei sostituire tutto questo bell'armamentario:

sicurezza, decisione, sincerità, onestà, divertimento, essere adulta, donna, femmina che dir si voglia, lealtà, elasticità fisica e mentale, libertà, libertà, libertà, libertà (mi si è impallato il pc? no, è voluto!), silenzio, dire le parole giuste al momento giusto e non cento anni prima o dopo e magari alla persona sbagliata, concentrazione, mitezza, dolcezza, generosità, ironia, lucidità, rilassamento, amor proprio, amore per gli altri.

Sì, più o meno questa è la situazione. Dai dai: si-può-fare. Yes I can, e tutte le varie frasi di incoraggiamento.