Di recente ho letto un libro meraviglioso. Leggendolo, ho provato parecchie emozioni variegate, colorate e avvitate tra di loro con una bellezza e una grazia che mi hanno ricordato un'elica del DNA per quanto erano profonde e universali. Un libro che mi ha ricondotta alle mie passioni e al quale sono grata. Si tratta di Non scrivere di me: otto ritratti-incontri che la giornalista letteraria Livia Manera Sambuy ha descritto e narrato in un gioiello di scrittura e umanità (e dotato di copertina stupenda di Adrian Tomine). Le persone belle si vedono subito: ho ascoltato l'autrice in una presentazione di questo libro al Circolo dei Lettori di Torino. Sorrideva con garbo nell'attesa e quando ha preso il suo posto e ha cominciato a raccontare ha colpito tutti con la forza che solo le esperienze veramente importanti sanno avere.
Da Philip Roth a David Foster Wallace, da Mavis Gallant a Paula Fox (se fosse possibile scegliere, ma non lo è perché sono uno più significativo e struggente dell'altro, questo ritratto-incontro sarebbe il mio preferito) sfilano queste otto grandi personalità sotto la luce rispettosa e amorevole dello sguardo di Livia Manera Sambuy e regalano nuove scoperte. (Su alcuni di loro ho lavorato per la mia tesi di laurea e li consulto da anni come numi tutelari, ritrovarli vivi e umani e tutti insieme qui è stato come un piccolo regalo della vita!).
Leggendo, mi sono appuntata parecchie frasi, con l'intento di copiarle qui sul blog, ma mi accorgo che non ha senso: sono troppe. Il libro è così ricco di saggezza e di ironia che vi toccherà farne esperienza diretta e non tramite un filtro.
Ho imparato nel tempo della lettura di Non scrivere di me così tante cose, ho ragionato così tanto e ho respirato così tanta aria pulita da provare un profondo senso di giustizia e di gratitudine.
Essendo poi una persona particolarmente fortunata, ho ricevuto dall'editore Feltrinelli l'opportunità di scrivere all'autrice per rivolgerle alcune domande. Dopo aver letto di questi otto incontri, non mi sono osata di chiederle di vederci (ma se leggete il libro vi ricorderete che nella vita nulla è impossibile e non si sa mai!), e così le ho scritto soltanto una mail. In tempo record considerati i suoi molti impegni, Livia Manera Sambuy mi ha risposto. E ciò che ho letto, e che trovate qui di seguito, va oltre ogni mia più favorevole aspettativa. Ha scritto parole belle, utili, e commoventi (per me personalmente, lasciatemelo dire). Sono così contenta e spero che per voi lettori questa intervista possa rappresentare un momento piacevole e felice e infine un "mezzo per mettersi al sicuro", per citare le parole di Mavis Gallant in riferimento alla letteratura.
In Non scrivere di me, per la prima
volta ha deciso di raccogliere le storie dei suoi incontri con alcuni
degli scrittori che ha intervistato nel corso della sua carriera: che
effetto le fa oggi questa scelta, mentre il suo libro comincia a
circolare nelle mani dei lettori? Racconterà ancora di altri incontri
con altri autori?
Ti confesso che mi fa un
effetto imprevisto. Sapevo di avere scritto un libro “sui generis”, che
ha pochi precedenti nella tradizione italiana: una lavoro che in America
appartiene al genere “narrative non fiction”, ma che allo stesso tempo
si discosta dalla regola per la presenza di un io narrante che fa da
filo conduttore tra gli otto incontri/racconti. Dunque i miei otto
ritratti di scrittori si leggono come otto racconti e allo stesso tempo
come una velata autobiografia. La scelta stessa dei personaggi riflette
qualcosa di molto personale: il mio criterio non è stato quello della
loro fama in Italia - anche se Roth e Wallace sono celeberrimi, e
celebri sono anche Ford e Fox. Ma dell'intensità dell’incontro. Di
quanto, cioè, questi scrittori avessero comunicato in senso profondo
alla luce della mia stessa esperienza di vita.
Non
avevo la più pallida idea di come sarebbe stato letto. Funzionava? Non
funzionava? I lettori lo avrebbero capito? Sono stata col fiato sospeso
fino a quando ho cominciato a ricevere i primi giudizi - una recensione
straordinaria da parte di Vanni Santoni sul Corriere - e poi messaggi su
Facebook, Twitter, e-mail, da parte di lettori spesso sconosciuti che
erano entrati nel libro e non solo lo avevano capito, ma lo avevano
capito meglio di me (come succede, credo, spesso). E’ stata
un’esperienza bellissima.
Non so se scriverò un
altro libro come questo. Non credo, proprio per i motivi che ho
spiegato sopra. E allo stesso tempo, non posso sapere quali altri
incontri mi aspettano, quali occasioni impreviste, quali scoperte.
"La critica non è scienza: non mi aspetto che i critici separino le
loro emozioni da quello che recensiscono", ha detto David Foster Wallace
nel corso del vostro incontro al McDonald's nella stazione di
un'autostrada a sud-ovest di Chicago. In Non scrivere di me le
emozioni legate alle relazioni umane che si creano con gli scrittori
emergono con sobrietà, intensità e tenerezza. Anche il suo lavoro di
giornalista letteraria - per certi versi differente da quello della
critica, e diverso anche dal progetto del libro - le ha concesso sempre
di tenere unite le emozioni e la scrittura o qualche volta ha dovuto
privilegiare la "scheggia di ghiaccio nel cuore" tipica degli scrittori e
mettere da parte sensazioni e sentimenti?
Avere
una scheggia di ghiaccio nel cuore, per uno scrittore, significa non
guardare in faccia a nessuno: andare per la propria strada e se questo
significa all’occasione ferire amici o figli o genitori, pazienza. Per
un giornalista, significa, penso, la stessa cosa, ma nel senso di
privilegiare l’informazione sul rapporto con il soggetto (che nel
giornalismo serio non dovrebbe esserci comunque). Il
giornalismo letterario è un caso a parte. In questo campo, sono rare le
informazioni riservate che, se scritte, diventerebbero uno scoop. In
ogni caso no, quella scheggia di ghiaccio non credo di averla. Un
esempio per tutti: quando tempo fa è uscita la notizia che Philip Roth
aveva smesso di scrivere romanzi - notizia a cui è stata data un risalto
internazionale - lo sapevo già da un anno e mezzo. Ma era stata una
confidenza, una battuta al telefono. Ricordo ancora le parole precise:
“Mia cara, è arrivato il momento di tirare giù la saracinesca e chiudere
bottega". “Sei sicuro?”, gli ho chiesto. “Sicurissimo”. Era una
conversazione privata. E ho preferito mantenere il riserbo. Cos’è un
piccolo scoop in confronto a un rapporto di confidenza, amicizia e
affetto?
C'è un autore che non ha ancora incontrato e vorrebbe incontrare?
Oh
certamente. In questa vita Alice Munro, anche se una volta abbiamo
parlato a lungo al telefono. E in un’altra, Saul Bellow. Non sono sicura
che quest’ultimo mi piacerebbe, di persona. Ma non c’è nulla che dia
più soddisfazione che vedere i proprio pregiudizi smentiti. A me,
almeno.
Dave Eggers ha elogiato il suo ritratto di
Philip Roth con parole così belle da meritare la quarta di copertina del
suo libro. Di Dave Eggers però non si parla in Non scrivere di me, mentre ricordo che lo ha citato durante la presentazione a Torino. Il dinamismo e l'impegno anche sociale dell'autore de Il Cerchio pensa
possano essere di esempio per gli autori italiani, forse a volte
ultimamente in alcuni casi un po' involuti e chiusi in se stessi?
Dave
Eggers è una persona eccezionale e dovrebbe essere un esempio per il
mondo intero, non solo per i giovani italiani. Non soltanto è uno
scrittore che ci ha dato libri importanti sperimentando temi e modi
sempre nuovi: è anche un autore che ha riscritto le regole del gioco a
modo suo, cosa che in un paese come l’America dove il successo è un
prodotto, è molto difficile. Inoltre è un filantropo, anche qui, sui
generis. Non gli basta finanziare fondazioni per aiutare i ragazzini che
studiano con difficoltà e hanno situazioni famigliari difficili.
S’impegna in prima persona a insegnare loro a scrivere, a fianco della
moglie scrittrice Vendela Vida. Lui e lei portano altri scrittori di
talento a fare altrettanto. Hanno creato una rete di altre dieci
organizzazioni no-profit impegnate nello stesso scopo. E fondato due
riviste letterarie, McSweeney’s per la fiction e The Believer per la non
fiction, allo scopo di divertirsi incoraggiando nuovi autori. Il mio
stesso capitolo su Roth, in Non scrivere di me, è uscito prima su The
Believer. Ricordo che quando gliel’ho mandato (l’avevo scritto in
inglese per fare un esperimento) Eggers ha risposto in meno di 24 ore
con una mail che diceva “Fantastic”. Non conosco molte persone capaci di
tanta energia, generosità e entusiasmo.
Domanda
di rito ma per me molto preziosa: che consigli darebbe a un giovane
intenzionato a seguire le sue stesse orme di giornalista letterario? E a
un giovane aspirante scrittore?
Purtroppo sul
giornalismo letterario devo essere pessimista. I giornali hanno sempre
meno soldi e oggi viaggiare per incontrare un autore - non dico andare
ai festival, ma essere soli con uno scrittore, andare a casa sua, e
avere tempo a disposizione, anche per leggere i suoi libri e prepararsi
bene - è un lusso che non esiste più. Ma è anche vero che ogni crisi è
un’occasione di rinnovamento, e qualcosa di nuovo nascerà. Sarà lei,
Noemi, a dirci come si farà giornalismo letterario in futuro.
Quanto
ai giovani aspiranti scrittori il consiglio è uno solo: disciplina.
Lavorare ogni giorno. Anche solo poche ore, non importa. Non si ha idea
quando materiale si accumuli poco a poco se si scrive con costanza. E
riscrivere, riscrivere, riscrivere. E poi - quando si è raggiunta una
forma presentabile - mandare i capitoli a poche persone fidate, non
scelte in base all’amicizia ma all’esperienza di lettura e alla capacità
di giudizio. Ascoltare bene i loro commenti, ragionarci su, e
riscrivere ancora.
Il giorno che ho cominciato Non scrivere di me ho stilato le mie regole in inglese su un foglio, e
ho appeso quel foglio sul muro accanto allo schermo del computer.
Diceva: “Be serious, be honest, be true”.