domenica 22 ottobre 2017

Su #quellavoltache #metoo: considerazioni sulla via di ritorno dall'Australia.



In Australia, stando a quanto ci dicevano gli amici, i parenti, molti siti web, i travel blog e persino qualche guida turistica, sarebbe potuto succedere di tutto. Ragni enormi e letali, tanto potenti da perforare pure le suole delle scarpe da trekking, serpenti pronti a fagocitarti come un topolino, meduse microscopiche ma in grado, con un solo tocco, di lasciarti due ore di vita, in taluni casi anche meno. Coccodrilli che sarebbero potuti spuntare da ogni angolo e sbranarci. E addirittura ci hanno messi in guardia dall'impulsiva, ingestibile aggressività dei canguri nonché dal pessimo carattere (e lo scarso amore per l'igiene) dei - solo in apparenza - tenerissimi koala. 

Nulla di tutto questo però è accaduto. Non abbiamo incontrato nessuna di queste belve ma solo adorabili pesciolini tipo Nemo, splendidi pennuti simpatici, aggraziate giraffe, pappagalli intelligenti, cavalli e cammelli che correvano liberi sulla terra rossa del deserto.

E su quella terra rossa (dove, più che altrove, per davvero vivono gli animali velenosi) ci abbiamo anche dormito, all'aria aperta, senza nemmeno una tenda a ripararci. Un incredibile cielo stellato ci faceva da soffitto e la sensazione di meraviglia e incredulità di essere lì, che stesse succedendo nella realtà e non in un sogno, ha reso pian piano vicino allo zero la paura di perire per il morso di qualsivoglia essere crudele. 

Siamo stati di certo fortunati ma c'è da dire che, naturalmente, il nostro viaggio non è stato perfetto e come in ogni viaggio ci sono stati degli imprevisti. Influenze, mal di denti, bancomat impazziti, orari da incastrare, gente strana. In ogni caso, ora che è finito, posso affermare con certezza che la tragedia che ci paventavano tutti, causata dalla micidiale fauna australiana, infine, non si è verificata. 

Una cosa però è successa ed è stata infinitamente più spaventosa di mille morsi di serpente. A funestare il viaggio, quando mi connettevo a internet, la sera, è stata la lettura sul web delle storie racchiuse sotto gli hashtag #quellavoltache e #metoo. 

A partire dal caso di Asia Argento (per chi se lo fosse perso, basta una breve ricerca su google relativa al caso Weistein), moltissime donne hanno cominciato a raccontare delle violenze subite dagli uomini e la cosa ha preso proporzioni enormi. Ben presto si è chiarita l'entità del problema: riguarda davvero tutti. Leggere da lì, immersa negli scenari incantevoli australiani, in luna di miele per di più, mi ha scatenato sensazioni ambivalenti. Da un lato il sollievo, la gratitudine di essere in quei luoghi con l'uomo buono, sano di mente e rispettoso con cui mi sono appena sposata, dall'altro lato il disgusto e la pena per chi in quello stesso momento stava subendo cose orribili. 

Neanche a dirlo, infatti, anche io, come tutte le altre donne, ho subito molestie e abusi in ogni fase della mia vita. A differenza di molte altre, però, non ho usato gli hashtag per raccontare i particolari di questi episodi perché proprio non ci riesco in pubblico. Ed è questo l'unico dubbio che ho su un'iniziativa che altrimenti mi pare necessaria, giusta e benemerita. 

I social network, secondo il mio punto di vista, sono tutt'altro che uno spazio sicuro e protetto. Possono essere efficaci per farsi conoscere, fare carriera etc. Ma se si è emotivamente fragili, sono territori minati. 

Mi chiedo, alla luce di ciò, se abbia senso usarli per una causa così importante e delicata. Non certo parlare del fatto che moltissime persone - e non solo donne, ma anche uomini, bambine e bambini - subiscono abusi da uomini (e da donne, è giusto sottolinearlo) nel corso della loro esistenza: questo anzi è sacrosanto dirlo, affermarlo, prendersene cura. Ma, di contro, l'indugio nella narrazione dei particolari su internet mi lascia nel limbo dell'incertezza: è giusto? Ha una vera utilità? Più in generale il racconto dettagliato del dolore, di quel dolore, così, senza supporti psicologici, senza tutele, senza struttura, ci fa del bene come collettività e come singoli? Fa bene alle vittime? Risveglia i carnefici, li rende consapevoli? Previene futuri abusi? Di sicuro fa sentir bene chi è già forte, chi è a posto nella vita, con le spalle coperte, ma tutti gli altri (che sono la maggioranza)? C'è dell'altro oltre all'esigenza dello sfogo? Ne segue una vera guarigione o cade nel vuoto e amplifica infine solo l'eco del silenzio? Si tratta di scelte consapevoli o di inconsapevole compiacimento, disperata speranza di ricevere un amore che, sui social, nove volte su dieci è inautentico, enfatico, effimero? Ci vorrebbe forse uno psicoterapeuta a rispondere, io non ho risposte in merito, solo domande.

La percezione, comunque, dal canto mio è quella di alzarsi in piedi, poniamo in una piazza piena di persone sia conosciute che sconosciute e non sempre, non necessariamente benevole, e dire i dettagli del proprio male più profondo. Si riceveranno senz'altro abbracci, ammirazione per il coraggio, manifesto odio per i carnefici, ma anche altro. Anche reazioni inaspettate, indifferenza, accuse, forse un nuovo, più subdolo, carico di molestie (come è successo proprio ad Asia Argento che sembra non ne stia venendo fuori se non con l'intenzione, addirittura, di espatriare). Posto che maggiore è la gravità, maggiore anche è la difficoltà ad esporre l'accaduto, in generale quando si tratta di qualsiasi tipo di dolore, mi domando davvero se non possa diventare alla lunga un progetto spurio e controproducente. Non vorrei essere fraintesa: trovo ignorante e abominevole accusare le donne che stanno parlando adesso degli abusi subiti da quell'orco di Weistein di aver taciuto perché è ben noto il meccanismo "invischiante" che si crea in questi casi e hanno sempre ragione i più vulnerabili, sempre. Le mie perplessità riguardano la valanga di dettagli. Tra lo sfogo liberatorio e l'espropriazione di parti di sé delicate, doloranti, qual è il confine? Al termine di quelle letture io ad esempio mi sentivo destabilizzata, impotente e magari è successo anche ad altre persone che, leggendo in silenzio, non sanno come gestire questo conflitto interiore. 

E così tornando al discorso degli animali pericolosi dell'Australia, ripenso a due cose. Una è che in viaggio leggevo Vedi alla voce: amore di David Grossman, e in quelle pagine il piccolo Momik, provando a immaginare cosa fosse la "Belva Nazista", se la figura come un animale feroce, simile a un dinosauro. La seconda cosa è che qualche giorno prima di partire per l'Australia, in casa mia, tra le mura immacolate di un appartamento qualsiasi di una qualsiasi città civilizzata europea, ho trovato il ragno più grande della mia vita. Un essere gigante, rispetto ai ragnetti d'appartamento cui siamo abituati. Abbiamo fatto una certa fatica a rimuoverlo e ci è rimasto molto impresso.

A volerci vedere un senso, in tutto questo, mi viene da dedurre che a volte spostiamo l'attenzione sull'esterno: diamo agli animali feroci o a chissà che altro di cattivissimo fuori da noi il ruolo del nemico perché non ci pare possibile che il vero pericolo provenga da dentro, stia proprio lì, nelle nostre case, nei nostri ambienti di lavoro, nei nostri bar, supermercati, strade, mercati, palazzi. Tutti posti in cui una donna (e un uomo) dovrebbero sentirsi bene, al sicuro e invece no, invece, stando a tutti questi racconti, sappiamo ora che sono quelli i veri deserti pieni di belve da cui stare alla larga. Con la differenza che l'animale attacca se attaccato, questi umani invece agiscono in sé e per sé, come mossi da una forza innata.

Insomma, non c'è alcun bisogno di andare nel centro dell'Australia per incontrare le bestie feroci. La bestia è nel nostro cuore, per citare il romanzo di Cristina Comencini che parla proprio di queste tematiche. 

Un primo passo allora potrebbe essere, adesso, farsene qualcosa di tutte queste testimonianze. Partire da qui per guarire le ferite delle vittime e, a monte, dei carnefici, io credo che sia possibile.