martedì 31 luglio 2012

I consigli di lettura di Genoveffa (buone vacanze)!




Cari amici, è giunta l'ora del proverbiale post delle vacanze! 

Tutti i blogger lo fanno e volevo contribuire anche io. Questa volta, però, ho chiesto aiuto a una mia "amica" molto più esperta di me: proprio una vera intellettuale!! (tra virgolette eh).

Dunque si chiama Genoveffa. Vive in centro a Torino e frequenta solo gente importante, per cui è un onore che abbia accettato il mio invito! Lei è nata a Milano e ha fatto l'erasmus a Parigi, perciò è una tipa molto raffinata. Occhio ai suoi consigli preziosissimi dunque.

Seriamente: siccome ci sono quaranta gradi e domani parto per una piccola vacanza, avevo voglia di scherzare un po'. E di prendere in giro prima di tutto ME STESSA e poi il sacro mondo delle lettere! E visto che tra pochi giorni avrò 32 anni, ho pensato che sarebbe bello "invecchiare" senza prendermi troppo sul serio: spero di riuscirci.

Allora a prestissimo. E buona visione!!







domenica 29 luglio 2012

Jules.


Alla fermata del 14 vedo un uomo che esce dal portone di Corso Re Umberto, 88. Per via della mia fissa verso il numero 8, penso che la cosa avrà un senso, e infatti, più o meno, lo avrà.

L'uomo è pelato, t-shirt semitrasparente nera infilata nelle bermuda bianche, fantasmini blu, mocassini marroni, orecchie a sventola. Nel deserto torinese estivo delle cinque del pomeriggio.

Jules, una cinquantina d'anni, tiene in mano qualcosa.

Una buccia di banana.

E un borsello. Arriva sornione alla fermata, a passi lenti, butta la buccia nel cestino. Quindi si avvicina alla panchina del controviale, accanto a una Mini verde. E si siede. Dal borsello tira fuori un piccolo libro. 


Comincia a leggere. 


venerdì 27 luglio 2012

Luchy.


Il caldo è un tantino opprimente oggi: sembra di camminare su una superficie solare, sembra uno scherzo. Dai, quando arriva quindi la realtà normale?

Mi fermo a scambiare due parole con un tizio.

Ha un sacco di tatuaggi sulle braccia. In questo periodo, mi incuriosiscono i tatuaggi, perché hanno a che fare con l'identità, credo, e farli o non farli ha un significato, non so bene quale, ma ci sto pensando. Comunque mentre un tempo non mi interessavano, ultimamente cerco di attaccare bottone con gente tatuata, per capire cosa le persone si scrivono o si disegnano sulla pelle. E perché mi piace l'idea di incidere delle parole (o immagini) su qualche superficie per dire qualcosa a chi legge. In una semplice parola: comunicare. 

Lui è un ragazzo magrissimo, con gli occhiali da sole, la sigaretta e questi tatuaggi. Ci parlo per via del suo lavoro, il corriere, ma quel che mi interessava erano i tatuaggi. E così ho fatto in modo da fargli la domanda.

 - Cosa c'è scritto?
-  Sul braccio?
 - Sì!
-  Questa è una tecnica nuova, danese, il lettering ha uno stile sofisticato... 
-  No, no, proprio la parola. 

(Perché non ero così vicina a lui da riuscire a leggere da sola, essendo anche miope, poi).

 - Ah. Luchy.
 - Luchy?

Guardo il piccolo abitacolo del furgone, pieno di pacchi chiusi da consegnare, buste, scatole. Luca. La maggior parte sono cose di lavoro, ma non sempre.

Qualche volta sono regali, sorprese. 

Luchy è fortunato, in un certo senso, perché se ne sta tutto il giorno in mezzo alle cose che contano per le persone, ai misteri degli altri, alle aspettative, ai desideri che fanno muovere la vita e le città. 

Anche con 40 gradi all'ombra, anche quando dice che stare lì dentro è come stare dentro al sole.










mercoledì 25 luglio 2012

Il baratto.

                                                                       
Immagine da qui.

Placido porta una camicia di un rosa acceso, che a guardarla abbaglia, soprattutto quando appare di colpo sul marciapiede all'ora di pranzo di un giorno di luglio così caldo che il cemento sembra tremare in lontananza, come sabbia nel deserto.

In un sacchetto di plastica Placido, che lavora in cartoleria, ha messo un quaderno piccolo, con un dipinto di Van Gogh stampato sulla copertina. Barche di pescatori sulla spiaggia. Il nome del quadro. E una biro.

Entra in panetteria. Margherita e Wilma (ma la chiamano tutti Wendy) lo salutano come si saluta un coinquilino, con la stessa naturalezza con cui si dice buongiorno a qualcuno che divide la casa con te, un progetto, uno stato d'animo, un pensiero, un battito cardiaco.

Solo adesso vedo che tra le pagnotte sfuse, più precisamente tra il multicereali e l'integrale, spunta un sacchetto con scritto Placido in pennarello indelebile. Wendy-Wilma acciuffa il sacchetto come se Placido fosse un cliente qualunque. 

Lui si gratta l'orlo del grande orecchio a sventola sinistro. Si aggiusta gli occhiali. Placido è grosso, ma delicato. Non guarda mai dritto, bensì punta a 45°, come se cercasse qualcosa per terra.

Quindi si scambiano questi sacchetti. Un quaderno a quadretti con biro, in cambio di un sacchetto pieno di pane. Penso che ci sta rimettendo Placido, quando vedo che Margherita si avvicina con una bottiglia di latte fresco, che le panettiere conservano in un mini-frigo insieme a insalate in busta, uova, succhi di frutta, yogurt e formaggi, salumi confezionati. 

La mano paffuta ma forte di Placido afferra i suoi tesori. Sembra di quelle persone che non sono insofferenti per il caldo. Ha una sua omeostasi, un suo equilibrio misterioso che lo rende invulnerabile alle noie del mondo. Anche se però come pegno gli sottrae qualcosa: Placido è stato illuminato e derubato dagli dei nello stesso momento. 

Comunque qui c'è un baratto. Infatti lui non ci pensa neanche a tirare fuori il portafoglio. Né Margherita apre la cassa mentre aggiunge alla spesa un dolcetto alle mele. 


lunedì 23 luglio 2012

Il carciofo della dialettica.


Le armi della critica - Alberto Asor Rosa - Piccola Biblioteca Einaudi.



Il carciofo della dialettica è il titolo di uno dei brevi saggi contenuti in questa importante raccolta "degli anni ruggenti" (1960 - 1970) di Alberto Asor Rosa. Posso dire che si tratta del mio scritto preferito perché riguarda Calvino e in particolare La giornata d'uno scrutatore di cui vi ho raccontato più volte in occasione delle mie simpatiche avventure come scrutatrice (vedi tag!).

E insomma questo libro occhieggiava da un po' sul mio scaffale. Per quanto in effetti ci tenga sempre a ricordare (a me stessa specialmente) di non essere affatto una critica letteraria, ammetto di aver comunque letto qualcosa al riguardo, durante gli anni dell'Università. 

Mi sono occupata, in quegli anni (primi duemila, mica tanto ruggenti, ma che sono quelli dei miei 20) di letteratura angloamericana, in verità. Però mi piaceva un po' interessarmi anche di altre questioni, sempre legate alla letteratura, cercando di capirci qualcosa. 

Quando ho discusso la tesi, la mia prof. definì il mio lavoro su Martin Amis e la scrittura autobiografica "oltraggiosamente coraggioso". Non ho mai capito (neppure oggi) se dovessi più rallegrarmi per quel "coraggioso" o temere piuttosto per l'"oltraggioso". In conclusione, qualche temerario decise comunque di conferire a quel lavoro addirittura una lode, risparmiandomi però, ahimè, il bacio in fronte!

La mia carriera di critica, tuttavia, è terminata lì. Anzi, non è mai cominciata. La ragione vera, su cui ho riflettuto bene, è una sola: non mi sono mai sentita capace di svolgere quel mestiere. Con questo non voglio denigrare me stessa, semplicemente mi sentivo più adatta per altre cose, o banalmente inadatta al lavoro accademico, per tutta una serie di ragioni che vi risparmio per non annoiarvi. Non ultima, però, la mia inettitudine a seguire, nel raccontare di un libro, un criterio, per così dire, diagnostico. Seguivo il mio semplice gusto e niente altro. Questo dovrebbe escludermi definitivamente dall'olimpo dei critici di professione una volta per tutte. Che per fortuna sono vivi e vegeti e lavorano con onestà e al meglio delle loro forze. 

Ma per arrivare al libro. Ciò che mi colpì allora, da studentessa, e che mi colpisce ancora oggi risfogliando quelle fitte pagine sottolineate a matita (n.d.r. però in foto vedete un'edizione del 2011), fu ed è la chiarezza. Mi è sempre parso che spesso si confondesse, invece, in molte scritture critiche, la complessità con la fumosità. 

Mi pareva, d'altro canto, che dietro certe scritture contorte al limite del dispettoso si celasse una profondissima esigenza di ottenere attenzioni personali, anziché il generoso compito di spiegare ai lettori (e agli allievi) un concetto, un'idea, una posizione critica, un'intuizione politica. 

In Asor Rosa, come studentessa ventenne, non ho mai ravveduto questa necessità (ma non l'ho letto tutto, beninteso). Mi pareva sempre che esponesse le proprie elucubrazioni (discutibili o meno questa non è la sede per decretarlo) in maniera, sì complessa, ma mai perversamente macchinosa.

Bè poi tutta l'analisi, che c'è in questo libro, sulla società borghese, la classe operaia, la battaglia culturale e la rivoluzione è materia difficile di per sé, inutile illudersi di affrontare questi saggi con la stessa disposizione d'animo con cui si consuma una prosa limpida, un romanzo "scorrevole".

Proprio ieri, però, leggevo una bellissima puntata della rubrica domenicale di Baricco su Repubblica. La sua Una certa idea di mondodi cui vi raccontavo già qualche tempo fa, in cui lo scrittore torinese si diverte a paragonare certi autori che sfoggiano tutto il proprio bagaglio culturale in ogni scritto a quelle donne che indossano le spalline del reggiseno trasparenti (con tutto il rispetto per chi lo fa per scelta estetica, oltraggiosamente coraggiosa). E comunque sì, sono d'accordo naturalmente, e come sempre, con lui. Merci, monsieur.

"Di fronte al mare dell'oggettività. Di fronte al labirinto dei significati e delle cose, ciò che conta, insomma, è tenere ben alto, anche se tenue e disperato, anche se traballante, il lumicino della razionalità: ossia della Storia: ossia (ma è lo stesso) dell'Uomo. Partecipazione non vuol dire complicità né tanto meno identificazione: anche se partecipare è necessario, a rischio magari di perdersi e sparire". 

Dice a un certo punto il critico, proprio nel carciofo della dialettica. Mi pare interessante questo paragrafetto. Partecipazione era una parola molto spesa in quegli anni ruggenti. Come non ricordare Gaber? Ad esempio. Libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone.

Anche se può far nascere nei nostri cuori nati negli anni Ottanta una goccia di tenerezza, di malinconia, questo concetto però secondo me è importante ancora oggi, e si può recuperare, restaurare, concimare, chissà coltivare come una piantina che sembrava secca e invece.

Ora lo dico: credo che l'attenzione che oggi gli editori prestano ai lettori (anonimi, non anonimi, dotati di qualsivoglia nomignolo, che dicono la loro su qualsivoglia sito internet), senza far troppa ideologia che non ne sono all'altezza, sia comunque un valore. Certo: è per vendere i libri. Perché i libri li leggono i lettori. Certo. Perché i libri sono prodotti. Certo. Questo è un fatto vero e inconfutabile. Però nell'"inferno dei viventi", del capitalismo (sic.) o chissà di cos'altro, si può ben anche "cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio". 

Che coincidenza, la canzone di Gaber e le Città invisibili di Calvino, se non sbaglio, sono tutte e due del 1972. 

E se quarantanni esatti dopo siamo ancora qui a parlarne cosa vorrà dire? Naturalmente, io non lo so. Come non so, è chiaro, cosa non sia inferno nel sacro mondo delle lettere e con che criterio chiedere o dare spazio a chi o a che cosa. Però riconosco lo sforzo di chi ci prova, di chi prova un pochino tutti i giorni. 

Dunque per concludere, non sono una critica, però da non-critica, da blogger (sic.), oggi rischio e vi consiglio di sfogliare qualche pagina di questo interessante libro. Poi mi direte. E buon inizio settimana!






domenica 22 luglio 2012

Per fare un albero ci vuole un blog.



Oggi ho pensato di aderire a questa iniziativa. Ho scoperto che anche un blog può inquinare il pianeta emettendo Co2. Tremenda notizia!

Questa associazione invece si propone di piantare un albero per ogni blog che partecipa, in un progetto di forestizzazione che mi pare interessante. Spero di potermi fidare, in queste cose è giusto essere scettici ma poi ogni tanto secondo me si può tentare, col rischio di fare un buco nell'acqua. La speranza qui è però fare un buco nella terra e mettere radici, in questo costante bisogno di ossigeno che abbiamo tutti quanti per vivere. 

Su questo sito qualche dettaglio per capirci qualcosa di più. 

Buona domenica!




venerdì 20 luglio 2012

Buongiorno, idioti!



"In uno dei vagoni di terza classe fin dall'alba s'erano trovati l'uno di fronte all'altro, accanto allo stesso finestrino, due passeggeri, ambedue giovani, ambedue con poco bagaglio, vestiti senza ricercatezza, con delle fisionomie abbastanza degne di nota, ambedue desiderosi di attaccare discorso". [L'idiota - Dostoevskij]


Non so, la parola idiota io la amo. Uno dei libri che ho letto con più amore e stupore nell'adolescenza primissima è stato proprio L'idiota che forse, insieme a Moby Dick, è il mio "romanzo preferito" (insomma, è meglio sempre avere uno o due romanzi preferiti da portarsi dietro in quell'isola deserta che certe volte è la vita). Quindi già quando sento questa parola - idiota - ho sempre pensieri di empatia e di simpatia. Per me, vuol sempre dire altro, non è mai un'offesa.

E così oggi volevo parlare un po' dei Soliti Idioti, ovvero Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio. 

Questo non è un blog di cinema né di tv ma ci tengo davvero a questa cosa e quindi procedo senza indugio!

Per chi, come me, è cresciuto letteralmente con Elio e le Storie Tese, e non immaginava dunque che l'umanità avrebbe potuto produrre niente di simile o di meglio, ecco che è arrivata la smentita. Perché "guardate come diventano elastici i nostri pregiudizi più rigidi appena l'amore viene a piegarli".[Moby Dick, appunto].

Su questi due amabili idioti in effetti si sono scritti fiumi di inchiostro, elogi ma anche critiche, accuse di vuoto culturale e volgarità. Etc. etc.

Ecco, quel che penso io, ma senza assolutamente farne una questione politica che anzi qui secondo la mia modesta opinione non c'entra nulla, è comunque tutto il contrario: la volgarità dei Soliti Idioti è davvero sopravvalutata e il presunto vuoto colmato sempre o almeno nella gran parte delle gag sia della serie televisiva su MTV sia del film. 

Secondo me, sono dei narratori nati. Degli acuti osservatori. Nello stato d'animo migliore.

Perché la gente a volte è proprio strana. E questo è un fatto.

La cura, i tempi comici, l'arguzia, la ferocia a volte, la tenerezza altre sono solo alcune delle caratteristiche che si possono inoltre notare in questi loro numerosissimi sketch. Mentre manca del tutto qualsiasi moralismo, manca il freno a mano, manca lo snobismo. 

Sì poi c'è una dose di idiozia vera e non indifferente, e non premeditata credo.

L'effetto che fanno però è quello di un atto di coraggio. 
Non so se vi è mai capitato: vorresti fare o dire una cosa, hai paura, non sai se è il caso, ci pensi mille volte, e poi la fai. Ed era la cosa giusta o comunque aveva un senso. La sensazione è un po' quella. Hanno un senso. L'altra realtà più semplice da constatare è poi che i due alla fine si limitano tutto sommato a raccontare la vecchia Italia con occhi nuovi, e comunque già detta così per me non è niente male come idea.

E poi mettono allegria! E anche questa in fondo non è una cosa da poco.

mercoledì 18 luglio 2012

I guanti e la colomba.


Una storia-vera.

Cammino per strada e vedo una donna. Capelli color cenere, anzi ocra. Occhiali, gonna, camicetta a fiori. Seduta su una panchina che fissa il vuoto davanti a sé. Il caldo è. Infernale. Come si chiama questa nuova ondata dopo Caronte? El Diablo? Fuoco e Fiamme? Delirium? Luciferus? Gargamella?

Comunque Giuseppina, questo il suo nome. O forse Ester. Se ne sta lì ferma immobile su una di quelle panchine singole in mezzo alle auto, le cui scocche semplicemente bruciano e riverberano il fuoco e le fiamme dalle viscere del cielo. 

Guardo ai suoi piedi e vedo una colomba. Anche il signore del negozio di scarpe dall'altra parte della strada guarda quella stessa colomba. Una colomba bianca e bellissima con una specie di coda che sembra lo strascico di una sposa piccola ma orgogliosa di se stessa.

La particolarità di Giuseppina (o Ester) è quella di indossare anche un paio di guanti. Di quelli gialli, per lavare i piatti. Li tiene ben infilati nelle mani, appoggiate sulle gambe. Il mio primo pensiero è la follia. Il secondo è il caldo che deve fare lì dentro, quelle povere dita.

Poi capisco il senso. Giuseppina si sporge in avanti, dopo minuti di preoccupante fissità. E accarezza la colomba. C'è quindi un significato. I guanti, per toccare la colomba. 

"Viene qui spesso" dice il tizio del negozio di scarpe. Ma, non mi sono concentrata abbastanza per capire se si riferisse a Giuseppina-Ester o alla colomba. O forse a tutte e due.

Torino. Quartiere Crocetta. Un pomeriggio qualunque di mezza estate.

lunedì 16 luglio 2012

Rosa candida.




Mio nonno era una delle persone più tristi che abbia mai visto nella mia vita. Ha trascorso il periodo di esistenza in cui l'ho conosciuto io chiuso in un mondo di solitudine, soprattutto mentale ed emotiva. Nella sua infanzia e nella guerra devono essere capitate cose che lo hanno ferito e senz'altro non si è mai più ripreso. 

Però mio nonno Giovanni aveva anche un'altra caratteristica: amava le arti. Il suo buio non era assoluto. C'era una scintilla. Lontana, forse vana, ma in effetti viva. L'unica cosa capace di accendergli quel suo sguardo celeste, altrimenti cupo e spento. Amava le arti (e i film di scazzottate di Bud Spencer e Terence Hill) in un suo rudimentale modo, che si era industriato a coltivare in quella solitudine: però le amava davvero. Soprattutto la musica, credo, perché aveva suonato nella banda del paese. Ma anche i libri. Il suo scrittore preferito, anzi l'unico che gli avevo visto leggere in verità, è stato Mario Rigoni Stern: erano quasi coetanei.

E poi scriveva molto, lunghissimi diari che sono andati persi e che compilava nelle altrettanto lunghissime ore che il suo lavoro (solitario e malinconico ovviamente) gli lasciava libere.

Di tutto questo, e arrivo al punto, e al perché questo libro mi ha colpita molto e da subito, è rimasta un'unica cosa. Una poesia. In verità uno scritto così piccolo che non so nemmeno se chiamarla tale. Una frase in ogni caso che da bambina conservavo in un borsellino, scritta di suo pugno, su un pezzo di foglio bianco in pennarello nero. (Se ci penso adesso, quello per me era una specie di simbolo della speranza). 

Ma ne esiste un'altra versione: aveva disegnato una bella rosa di un colore chiaro che riempiva tutto il foglio, e ci aveva scritto queste parole accanto:

Più bella tu sei di una rosa. Più soave, più candida di un fiore. 

Rosa. Candida. Sono perciò due parole che girano nella mia testa da sempre. Il pensiero che mio nonno, nel mezzo di tutto quel suo incomunicabile dolore, ed era senza fine, era qualcosa che non posso descrivere in poche righe. Nel mezzo di tutto quello; nel mezzo dell'orrore della sua vita umana abbia comunque concepito o conosciuto o sognato o anche solo immaginato qualcuna di più bella di una rosa, di più candida di un fiore, mi sorprende sempre molto.

E questa è la prima affinità che ho sentito con questo delizioso romanzo della scrittrice islandese 

Ma poi ci sono altre cose che mi sono piaciute. 

Innanzitutto la sua lentezza. Questo è un libro piccolo, pochissime pagine. Eppure ci ho messo un sacco a finirlo. Perché ha tempi speciali, legati al cibo, alla scoperta del mondo, della natura delle cose, tempi nuovi, in linea con un diverso modo di vivere, di scrivere, di essere che secondo me ha a che fare (non so come) con il futuro. 

In seconda battuta così il personaggio del protagonista, Arnljòtur, un ragazzo sulla ventina, spilungone, con i capelli rossi e una profonda conoscenza e passione per i fiori e le piante mi è parso proprio un personaggio di un libro di domani, nemmeno di oggi.

I fiori. Una cultura buona e immersa nella terra e nel suo potere di trasformare qualsiasi cosa, una terra straordinaria e irreale che è quella natale di una mamma scomparsa troppo presto ma che gli ha lasciato tanti ricordi, un fratello silenzioso, un papà premuroso e insicuro e una serra. Ed è la serra il suo luogo preferito, dove va a rifugiarsi in qualsiasi momento ne senta il bisogno. E soprattutto dove concepisce, insieme ad Anna, un'amica semisconosciuta, studentessa di genetica, niente meno che una figlia. Quindi questo ragazzino stralunato, anzi lunare, candido ma anche normalissimo, scopriamo che è anche papà. Una nascita non cercata, non voluta ma neanche rifiutata. Una cosa bella, spontanea, che spaventa ma che esiste. 

Lobbi, questo il soprannome del ragazzo, poi a un certo punto parte, lascia padre e fratello alla volta di un monastero in un paesino sperduto dove c'è un giardino, il più bello del mondo, il "Meraviglioso giardino delle rose celesti", ormai distrutto ("l'ombra di se stesso") che ha ferma intenzione di mettere a posto, sistemare, e depositarvi alcune talee di una rosa particolare. 

Una rosa rara, che ricorda la Rosa candida, ma di un colore diverso, porpora, a otto petali ("otto crescono alla base della corolla, e due strati di altri otto si sviluppano all'esterno. In totale quindi il bocciolo si compone di ventiquattro petali ed è quasi sempre umido di rugiada [...] Appartiene a un ceppo più resistente: nel suo genere, probabilmente, è unica al mondo. Ho consultato una marea di libri sulle rose, ma non ho mai trovato nulla di paragonabile". E anche questo aspetto dell'otto mi ha colpita (vi ho già raccontato forse la mia mania per l'otto, nata l'8/8/80, vivo al civico 88 etc. etc.??).

Ma, comunque, mentre Lobbi trova la sua strada (la cerca) nel mezzo di questo giardino, allietato dalla sola compagnia dei monaci - tra i quali uno fantastico che beve bicchierini di liquore guardando un film al giorno nella sua stanza stracolma di videocassette e diventa un po' un padre spirituale - ecco che Anna ripiomba di nuovo nella sua vita, chiedendogli di aiutarla a occuparsi per un mesetto della bambina, dovendo lei studiare per l'Università. 

Quindi la storia rallenta ulteriormente rispetto alla prima parte, e tutto si avvolge attorno a questa permanenza di madre e bambina nella casetta di Lobbi. Una convivenza di poche parole, molte cose da fare, molto cibo e molti pensieri sulla vita. Lobbi è ossessionato da "pensieri sul corpo", è pure ipocondriaco anche se ama molto la vita. E la bambina, insieme ad Anna e al giardino da curare un po' ne scacciano via. Poi la vita ha sentieri inaspettati e un finale che non vi dico.

Però il bello è leggere i ritmi di questo romanzo, che per certi versi assomiglia a un delicato spartito musicale da decifrare, per altri mi ha ricordato un film famoso e generazionale, che ho visto di recente: Into the wild: declinato certamente su tutte altre frequenze, ma il concetto è quello di un giovane che lascia la casa dove è nato e va a cercare qualcosa in giro - in un'altalena precisa dove si alternano i ricordi e gli insegnamenti della mamma angelicata, e l'indefinibile legame con Anna, le telefonate con il papà un po' ansioso e le ricette da inventare per la figlia.

Quello che lascia sbalorditi in questa storia è come si incastri perfettamente un vicenda qualunque, un ragazzo che semplicemente cresce e diventa adulto, dentro un mondo e un'atmosfera del tutto altri, incantati, sospesi nella bellezza più delicata e dolce che si possa immaginare.  


Mentre leggevo si è posata sul libro una coccinella!

- Di solito le cose peggiorano fino a un certo punto, prima di ricominciare a migliorare. 
Dice a un certo punto Padre Tommaso (il cinefilo). 
Dunque questo libro è consigliatissimo a chi è in cerca di una fiducia incrollabile nella vita, nei libri, nella bellezza, nella natura, nelle parole, nel cibo.



martedì 10 luglio 2012

Ieri notte.


Saranno state le 23. Stavamo sparecchiando. Di questi tempi qui si consumano cene tardive, nella speranza di un refolo di fresco (vana). A un certo punto, una voce rompe il silenzio dell'estate. Il vuoto dell'estate. Si tratta di una donna. Che grida "lasciami". Fortissimo, più volte. Un grido vero, che avevo sentito solo al cinema. Seguita da un uomo che replica: "vieni qui ti ammazzo".

Circa questo. E l'orrore è proseguito per cinque sei minuti. Fino a quando siamo scesi in strada, ci siamo appostati di fronte alla casa in questione e abbiamo chiamato i carabinieri. 

Il silenzio e il vuoto del quartiere, a quell'ora, in questo periodo dell'anno, sono assoluti. A me spaventano, non ho ancora trovato la formula per sopportare bene queste ondate di calore che nella mia iconografia personale rappresentano il nulla. 

La donna e l'uomo comunque nel frattempo avevano smesso di gridare.

Fissavo il cortile di questa casa dove spuntavano due o tre bambini con la pelle nera. Un gruppetto di ragazzi tornava da una bevuta e riaccompagnava un amico. Dei due di prima, più nessuna traccia sonora. 

Alla fine, arrivano due macchine dei carabinieri. Spieghiamo che una donna urlava "lasciami" molto forte (e purtroppo incredibilmente vicino). E intanto una signora, con il cane al guinzaglio, che non avevo notato ma che forse ci osservava da un po', si avvicina e mi chiede: "di cosa sta parlando?". Le racconto l'accaduto e tutto mi aspettavo, tutto ci aspettavamo noi che eravamo lì, tranne che lei dicesse: "quella donna sono io". 

Una piccola vertigine. Ma, com'era possibile?

"Quello che gridava era mio figlio, un ragazzo paralizzato". Ed è andata avanti con i suoi fatti di vita. Ha raccontato la sua storia, a dire il vero assurda, piena di lacune e incongruenze e, abbiamo concluso tutti, un po' delirante. I carabinieri le facevano domande sulla Asl, su altre cose, e ci chiedevano di tenere una certa distanza dalla signora. Che in effetti aveva occhi spiritati.

Vi racconto questa storia perché ho poi riflettuto. Qualsiasi cosa sia realmente avvenuta tra quelle quattro mura, ho pensato che il male, il peggio, il dolore, tutto ciò che assume una connotazione negativa nella vita delle persone molto spesso non è chiaro. Non è circoscrivibile: per questo ferisce, confonde. Il dolore è qualcosa di ambiguo. Bisogna stare attenti, rimuginavo quindi, là dove c'è opacità.

Ciò che mi aspettavo io era un bel salvataggio in piena regola. Con una povera e santa donna spettinata che ci ringraziava per il generoso aiuto. E l'omone cattivo, truce, alcolizzato, tra le sbarre. Con buonapace di tutti. Con medaglia d'oro a noi e ai carabinieri e foto ricordo (esagero). Invece la realtà era tutt'altro che comprensibile. Era annacquata. Era uno stagno dove non si vede sotto. Non sapremo mai, quindi, la verità. Che perciò resterà ferma in una zona grigia, una zona oscura. Una zona dove non si capisce, con tutta la buona volontà, come stanno davvero le cose. 

Ma facendo un passo oltre. Anche "il bene", allora, il bene assoluto, se c'è, per analogia, sta proprio lì dove la luce e l'ombra si toccano per un istante? Le cose più belle della vita, in effetti, non hanno una sola tinta, un solo colore, non sono, in una parola, poi così chiare? Su questo sono incerta, ma ci sto ragionando. O forse non c'è molto da ragionare?

Cos'è, in conclusione, quell'imponderabile che lascia così, nel deserto o nella meraviglia? Senza parole. O con pochissime parole.

Una cosa sola è sicura, però, di tutta questa storia. Ed è quella di chiamare sempre i carabinieri se si sente urlare qualcuno in quel modo. Ce lo hanno confermato: non è stata una perdita di tempo.

domenica 8 luglio 2012

Gente di Torino.


Senza volerlo, mi sono presa una piccola vacanza, ma non era premeditata! Sto andando un po' al rallentatore con le letture di cui vi vorrei raccontare, più il caldo, più varie cose sparse da fare, insomma comunque sono qui.

In questi ultimi due o tre giorni ho girato un po' per Torino, in particolare di sera; perché è estate e la sera se si può è meglio uscire a prendere fresco. Venerdì sera, passeggiando a caso per Piazza Carignano, ho incrociato lo sguardo di Angelo Piovano. Per i non-torinesi: Angelo è un signore ultrasettantenne conosciuto come "l'uomo più tatuato del mondo". 

Capita spesso di vederlo transitare tranquillo per la città. Se cliccate sul suo nome leggete la sua incredibile storia. Ha iniziato a tatuarsi a 56 anni dopo una vita di fatiche e repressioni. Non ha più smesso e ora ha il 98% della superficie del corpo tatuata. Quando ero piccola mi faceva paura, non sapevo neanche come chiamarlo, lo credevo un mostro. 

Venerdì sera invece l'ho visto camminare molto lentamente accanto a un tizio, con quell'andatura traballante degli anziani. Il tizio era un vecchietto, vestito elegante, da vecchietto elegante. Occhiali spessi, mocassini, completo color panna. Saranno stati amici, ho pensato. Due amici più diversi, vestiti diversi, con pelle diversa non si possono immaginare al mondo. 

In quello stesso istante, passava di lì Guido Catalano in bicicletta. Guido è un genius loci della città, è un poeta ed è anche passato a trovarci in trasmissione a Flash Papers (su Radio Flash 97.6). Perché vi racconto i fatti suoi? Non lo so.

L'indomani, sempre a Flash Papers, ho conosciuto invece Sparajurij. Altra entità un po' mitologica per la Torino-giovane dell'ultimo decennio. Cliccate sopra e vedrete di che si tratta! Molto interessante. Ci ha parlato della rivista letteraria Atti Impuri. 

Quella stessa sera, cioè ieri, con un po' di amici eravamo alla Reggia di Venaria, perché c'era Brian Eno! Si trovava in zona sabauda per l'evento HOP.E; molto carino, cliccare per credere.

Ad aspettare Brian Eno c'era anche: Giorgio Faletti. Sì, proprio Giorgio Faletti tutto elegante, con gli occhi blu etc. Faletti. Lo scrittore. Che aspettava Brian Eno. A Venaria. Fantastico. Surreale.

Brian Eno è apparso ed è transitato come un re nella galleria di Diana mentre accadeva la sua installazione sonora pensata per il luogo. Il volume era bassissimo, o noi parlavamo troppo forte, in conclusione non è che si sia sentita molto questa cosa, però vabè, c'era Brian Eno alla Reggia di Venaria. E noi tutti dietro. Brian Eno è uscito fuori, tutti a seguirlo. Poi è rientrato. Tutti dentro. Foto, un attimo di sospensione nello spazio-tempo di questo cerchio di personaggi inconsueti che eravamo al colpo d'occhio tutti quanti. Strano, fantastico e surreale.

Torino del resto è un po' terra di surrealtà, non c'è da stupirsi che anche nelle vicinanze succedano cose strane e misteriose.

A presto con nuovi libri e tazzine!

Buona domenica.


lunedì 2 luglio 2012

Gita in montagna, stupid things, bellezza e meraviglie.


Dai pascoli ai ghiacciai di Rosanna Carnisio. 
Ci sono giorni, come ieri, in cui è meglio, se si può, scappare semplicemente dalla città. 
Questa insegna l'abbiamo trovata in un bar in Val Chisone (sul retro, c'era un laghetto artificiale per la pesca alla trota).


Ma attenzione: questo non è un post solo per piemontesi o valdostani. 

Questo è un post per chi cerca un modo per far fronte al caldo. (Nel mio specifico caso: forte scatenatore di ansia, paranoie, ipocondria, sintomi vari, tristezza, obnubilamento mentale, deliri, scollamento dalla realtà).

E quindi siamo arrivati a Laux. "Uno dei borghi più belli d'Italia".


La bellezza è semplice.

Delicata.

Gente che si prende cura dei suoi balconi.

Una strada, un sentiero.

Abbiamo pranzato lì. Silenzio e una pioggia leggera.

Passare più ore di seguito in mezzo ai fiori è una strana esperienza.

Fiori e farfalle. 

Le mucche presidiavano uno slargo dal quale dovevamo passare noi; e c'era un cane da guardia. In quel momento, anche se incantato, perché le mucche sono esseri superiori e musicali che scampanellavano e brucavano tranquille, io ho avuto paura. 

La paura, ci ho pensato dopo, di vivere, perché la vita è per gente coraggiosa che non teme le mucche, anzi. A vederle così adesso mi sembrano del tutto innocue, mentre ieri mi terrorizzava l'idea di camminarci vicino. Non so perché scrivo queste cose, ma credo ci sia un senso in tutto ciò.

Laghetto.


Ruscello.
Fontana.

Parco giochi.
  
Qui abbiamo fatto una sosta.

Il laghetto di prima.


C'erano margherite molto più grandi di quelle cittadine. 

Un sentiero adottato. 

Credo che questo sia un lariceto. 

Prima di un "ampio pianoro".

Larici secolari. Ovvero: sono lì da secoli.

La montagna è gentile, anche con escursionisti principianti.

Torta cioccolata e pesche.


Che adorabile piantina.
Questa sono io, in quel momento lì.



 In quel libro ci sono ben 100 itinerari possibili. L'idea sarebbe quella di percorrerli tutti. Non so se ci riusciremo, però è bello pensare di farcela.

Quello che serve sono scarpe da camminata, vanno benissimo quelle di Decathlon; crema solare, una maglia a maniche lunghe da mettere verso le 16/17. Panini e acqua (bibite anche, due birrette non guastano, frutta). Un libro (nel mio caso non è stato possibile leggere perché mi è presa appunto la paura di attraversare le mucche, poi era un po' tardi, dovevamo tornare in tempo per la partita, argh, e quindi non siamo arrivati ai laghi Albergian). 

Questo comunque di Laux è un tragitto che nella sua interezza dura 3 ore, con un dislivello di 650 m. Di modesta difficoltà. Il periodo migliore è maggio-novembre. E ci si arriva da Pinerolo-Roreto, parcheggiando nella piazzetta del paese.

A me piace molto la montagna, e mi spaventa. Ma sto imparando a conoscerla. E più si conosce qualcosa di bello, più ci si affeziona. Quella calma e quell'aria cristallina che ci sono in montagna sono utili per persone timorose o molto agitate. Ma anche per tutti gli altri. Per sperimentare la bellezza e la meraviglia, la concentrazione che a volte sfugge in città d'estate. E per trascorrere la vita, la domenica specialmente. Che è un giorno contraddittorio e, come si diceva sopra, da affrontare sempre con un po' di coraggio.