Antonietta Pastore, Mia amata Yuriko, Einaudi |
Mia amata Yuriko è un romanzo delicato
e profondo come sanno esserlo solo le emozioni e le opere d'arte più
autentiche della vita. Confluiscono, in questa storia vera - e
verosimile solo nelle parti in cui la memoria dell'autrice ha dovuto
essere completata da piccoli inserti di immaginazione - diversi
elementi, tutti accurati e importanti. Il lettore, alla fine della
lettura, resta legato alla bellezza elegante delle ambientazioni ma
soprattutto ai personaggi e scopre anche se stesso come in uno
specchio: si possono ritrovare temi decisivi come il contrasto tra il
destino (qui rappresentato, fondamentalmente, dalla guerra e dalla
bomba atomica che ha colpito Hiroshima il 6 agosto del 1945) e la
scelta individuale. La difficile concordanza tra l'amore per un'altra
persona e il rispetto per sé. La capacità di sopportare il dolore,
la vergogna e la determinazione. Fino all'illuminazione finale che fa
entrare la luce in tutta la storia e, senza paura di svelare troppo,
si può dire che abbia a che fare con la piccola, ma ineguagliabile
gioia della consapevolezza di avere fatto la cosa giusta. In tutto
questo, nelle parole che compongono questo romanzo breve e
perfettamente composto, c'è il tocco della scrittrice e traduttrice
Antonietta Pastore che descrive di come abbia raccolto la vicenda di
Yuriko. Si capisce bene quali passaggi, quante attese e quanta
delicatezza d'animo abbia richiesto la tessitura di una trama
impeccabile proprio perché reale. Si sente una voce sì delicata, ma
anche fortissima. Strutturata da una dote naturale e insieme, si può
intuire, dal pluriennale lavoro di traduttrice dal giapponese e dalla
assiduità dell'autrice con questa cultura – sappiamo infatti che
ha abitato in Giappone per sedici anni sia per amore sia per lavoro.
Personalmente, dal momento che Murakami
Haruki è uno degli autori che più hanno influenzato la mia
esperienza di lettrice e la mia vita, non posso non notare una
analogia di sentire tra l'autrice e traduttrice dei suoi lavori e
Murakami stesso, come immagino degli altri autori da lei tradotti. A
un certo punto, nel corso della lettura, ricordo proprio di aver
pensato: il mistero di Yuriko assomiglia al mistero chiuso in certi
personaggi del mio autore giapponese preferito! Ma nel romanzo di
Antonietta Pastore ci ho letto un pezzetto di qualcosa in più:
Yuriko è reale, è una donna come tante, come me. Una donna da cui
imparare come si decidono le grandi cose della propria esistenza, e
anche quelle minime. Infine, ho capito leggendo che è possibile che
un no o un sì detti al momento opportuno ripaghino di un'unica, ma
vitale cosa: la dignità che ci rende umani.
C'è da aggiungere che di per sé la
lettura di questo libro è un privilegio, come lo è la meticolosità
intellettuale ed emotiva che fa sì che arrivino, confezionate con
purezza estetica, racconti belli e utili come questo. Ci aggiungo
però un mio personale privilegio, che voglio condividere con i
lettori affezionati di questo blog: la possibilità di rivolgere a
un'autrice che leggo e seguo da tempo nel suo lavoro, alcune domande.
Mia amata Yuriko è un romanzo che
tocca diversi temi, ma quello che, al termine della lettura, pare più
evidente è il valore della scelta. Un nodo che si scioglie solo alla
fine di tutto il racconto, quasi a svelare un mistero, che è quello
della personalità e della vita stessa di Yuriko, una donna che
appare subito forte ma anche, inizialmente e al tempo stesso un po'
“strana”. Può raccontarci come lei, Antonietta Pastore, abbia
invece scelto di trasmettere ai lettori questa storia? Dal capitolo
finale del libro, sappiamo infatti che tutto è nato dopo i tragici
eventi di Fukushima del 2011.
Le scelte, a volte, si impongono,
diventano una necessità. Per fortuna non tutte sono drammatiche come
quella che deve fare la protagonista del libro, Yuriko, davanti a un
dilemma da cui dipende la sua dignità di donna e di persona. Nel mio
caso, la decisione di raccontare la sua storia è nata sì da
un’urgenza reale, però il mio ruolo è solo quello della
testimone. Negli anni in cui vivevo in Giappone, la mia esistenza per
un breve momento ha incrociato quella di Yuriko, e quest’incontro
ha lasciato in me una traccia, come un punto in sospeso in fondo alla
mia coscienza. A lungo ho pensato che la sua vicenda meritasse di
essere narrata, ma al tempo stesso mi dicevo che non era il caso di
riesumare eventi molto lontani, molto tristi, sui quali era forse
preferibile lasciar calare il silenzio.
Nel marzo del 2011 però, quando ho
visto che la tragedia di Fukushima provocava danni − che non
giudico collaterali −, analoghi a quelli che già si erano
constatati dopo Hiroshima e Nagasaki, ho sentito che era venuto il
momento di parlare di Yuriko. Perché a distanza di decenni altre
persone, altre donne, erano vittime di ingiustizie simili a quella
subita da lei. Avendola conosciuta, mi sentivo in qualche modo
autorizzata, anzi, quasi tenuta, a raccontare la sua storia, come se
fossi stata scelta a testimone, appunto, di una realtà sconcertante,
mai divulgata.
Per la stessa natura delle
esplosioni di Hiroshima, quello della bomba atomica che ha colpito
gli abitanti di quelle zone del Giappone pare essere un tema a lunga
percorrenza. La storia di Yuriko ci parla di tempi lentissimi, di
attese apparentemente senza fine e di indeterminatezza. Si può
immaginare che il suo lavoro abbia richiesto molto rispetto e
capacità di far sedimentare il materiale narrativo di cui disponeva
per dargli ancora più valore: è così? E quanto è determinante
l'attesa, nella vita come nella scrittura?
Come ho appena detto, ero a conoscenza
della storia di Yuriko da molti anni, la prima parte mi è stata
rivelata nell’82. Era una vicenda di un valore e di una gravità
tali che, anche dopo aver iniziato a scrivere sul Giappone, dubitavo
di avere il diritto di raccontarla. Prima del marzo 2011, è stato
soprattutto questo dubbio a trattenermi dall’imbastire anche solo
un progetto di narrazione. Rischiavo di inoltrarmi in un terreno che
aveva una sua sacralità, di oltrepassare una soglia che nemmeno il
ruolo di testimone mi autorizzava a profanare. Non ero abbastanza
motivata per infrangere un tabù: toccare l’argomento Hiroshima.
A parte questa considerazione, sono
contenta di aver lasciato che il silenzio calasse per tanto tempo
sulla storia di Yuriko, di averla relegata in un angolo della mia
memoria − senza però dimenticarla. Perché col passare degli anni
e con l’accumularsi delle esperienze ho acquisito, come la maggior
parte delle persone della mia età, “la cognizione del dolore”,
senza la quale non è possibile raccontare la sofferenza altrui. La
consapevolezza della drammaticità intrinseca alla vita mi ha aiutata
a illuminare una storia “sedimentata” in una zona oscura della
mia mente, dove rischiava di sprofondare al di là della soglia
dell’inconscio. Non dico che debba essere così per chiunque, ci
sono persone − e scrittori − che questa consapevolezza, bene o
male che sia, la raggiungono relativamente presto.
Nel romanzo appare anche la
contraddizione tra il silenzio e la parola. Come se l'uno non potesse
fare a meno dell'altra, proprio come i due innamorati protagonisti
della storia. I noti silenzi che contraddistinguono il carattere dei
giapponesi, qui si mostrano come antesignani però di una parola
finale che si fa necessaria. Il silenzio sembra proprio il territorio
in cui la parola, come un seme, impara a germogliare. Nel caso del
romanzo, attraverso una lunga lettera che rivela il senso stesso dei
fatti accaduti. Si può dire che anche la letteratura abbia questo
ruolo? Come uno svelarsi di contenuti che maturano solo nel silenzio?
Sì, certo. Basta pensare a Jorge
Semprún, che per lungo tempo non ha voluto raccontare, anzi ha
cercato di dimenticare, il periodo trascorso a Buchenwald. Per lui
era la condizione per poter continuare a vivere, come spiega nel
libro La scrittura o la vita. Sentimenti analoghi credo che
abbiano indotto molte vittime di Hiroshima e Nagasaki a non parlare
della propria esperienza, se non in tempi recenti. Ma naturalmente
non si può generalizzare: ci sono autori − quelli appartenenti
alla cosiddetta “letteratura della bomba atomica”, il cui massimo
rappresentante è Hara Tamiki − che già pochi mesi dopo l’agosto
del ’45 hanno scelto di scrivere delle esplosioni nucleari e delle
conseguenze che hanno avuto sulla loro vita.
Nel caso di Yuriko, tuttavia, il
silenzio mantenuto fino all’ultimo era forse strumentale al suo
bisogno di proteggere l’amore che ha continuato a nutrire per il
marito. E non è stata lei a romperlo alla fine.
Domanda inevitabile: quanto il suo
lavoro di traduttrice ha influenzato il suo stile di scrittura?
Consiglierebbe a un aspirante scrittore di imparare anche a tradurre
da un'altra lingua?
Dopo l’uscita di Mia amata Yuriko,
più volte mi sono sentita dire che la mia scrittura è “molto
giapponese”. Non capisco bene cosa significhi, dato che ho tradotto
autori molto diversi fra loro − Natsume Soseki e Murakami Haruki
sono stilisticamente agli antipodi. Forse quest’osservazione si
riferisce alle atmosfere che troviamo nei romanzi dei narratori
classici moderni − quali Soseki, appunto, o Tanizaki −, atmosfere
che il mio romanzo, considerata l’epoca in cui si svolge gran parte
della vicenda, probabilmente evoca. Posso dire però che non sono
esente dall’influenza di Murakami, perché uno dei temi a lui più
cari − il senso di perdita e il rimpianto per quello che non si
potrà mai più ritrovare − è sempre stato nelle mie corde, e
forse per questo motivo la storia di Yuriko mi ha così profondamente
commossa quando ne sono venuta a conoscenza.
Riguardo al consiglio di provare a
tradurre qualcosa prima di mettersi a scrivere, no, non lo ritengo
molto utile. Tradurre, da qualsiasi lingua, non è una cosa facile, è
già un mestiere in sé e rischia di assorbire tutte le energie.
Inoltre, è ovvio che la traduzione è un’ottima scuola di
scrittura, ma sono due cose diverse, avere talento per la prima non
implica necessariamente che si riesca a fare bene la seconda. Ci sono
scrittori eccellenti che non hanno mai tradotto una riga in vita
loro, così come ci sono traduttori bravissimi che non sanno dar vita
a una storia, a dei personaggi, veri o immaginati che siano. E poi ci
sono gli scrittori di professione che traducono − come Murakami
Haruki − e i traduttori di professione che scrivono, come me.
Un’attività non esclude l’altra, possono alternarsi a ritmi che
variano da persona a persona.
Quello di Yuriko pare un destino che
la connota soprattutto in quanto donna. Quasi come se i diritti
umani, quando si tratta di persone di sesso femminile, assumano una
valenza più sfumata. Attraverso una storia d'amore, il romanzo ci
spiega anche questo: come le donne, a Hiroshima ma anche altrove nel
mondo, abbiano subìto un carico di dolore morale diverso rispetto a
quello degli uomini e in questo risiede anche la forza del
personaggio. Pensa che racconterà ancora di donne, come ha già
fatto in precedenza nei suoi lavori?
È vero che in tutte le crisi sono le
donne a pagare il prezzo più alto, sia nello spirito che nel corpo,
ma questa discriminazione non avviene impunemente per nessuno, anche
se non sempre se ne percepisce subito la portata. L’infelicità di
una donna, soprattutto quando è causata da un sopruso, da
un’ingiustizia, si irradia sull’ambiente che la circonda e ne
riduce le potenzialità, lo spegne. Così alla fine qualche danno ne
deriva a tutti, anche se spesso la gente − in primo luogo gli
uomini, ma non soltanto loro − non se ne rende conto e continua a
infliggere alle donne lo stesso trattamento iniquo. È quello che
succede a Yuriko, vittima soprattutto delle convenzioni sociali.
Quanto a raccontare ancora di donne,
vorrei farlo. Non riesco a immaginare di narrare una storia il cui
protagonista sia un uomo, forse perché ho tendenza a scrivere in
prima persona.
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