Benché non sempre sia possibile, mi capita ogni tanto di partecipare ad alcuni incontri tra blogger e autori. Ormai nel web sono nati tanti blog letterari, tante realtà diverse e mi fa piacere notare quante persone giovani e curiose ci siano a fare questo "mestiere" che non è proprio un mestiere.
In questo caso, ringrazio la casa editrice Feltrinelli perché mi ha sostenuta nel piccolo viaggio da Torino a Milano oltre che fatto dono del romanzo e invitata a un aperitivo stupendo al quale, come spesso mi accade, però non ho potuto prendere parte perché dovevo... prendere il treno. Insomma, consigli per giovani blogger: siate milanesi! Scherzi a parte, grazie. E lo aggiungo per trasparenza: da qualche tempo a questa parte, nella grande maggioranza dei casi in cui riesco a partecipare a incontri simili è perché l'editore mi ha aiutata, a seconda delle proprie possibilità, a sostenere lo spostamento.
Ma veniamo al dunque. Questo post doveva intitolarsi: "Caro Michele". Rubando un titolo di Natalia Ginzburg, volevo scrivere una lettera aperta al ragazzo di trentanni che si è tolto la vita e che è passato alla cronaca e, diciamolo, anche un po' al sensazionalismo dei media, per una lettera molto dura e toccante. Per chi se la fosse persa, eccola
qui.
E avrei voluto dirgli (posto che non sia stato tutto un fake, come emerge da alcune ultime notizie nel Mar dei Sargassi dell'informazione): caro Michele, ti capisco. Tante volte anche io mi sono sentita così tanto stretta in quella nuvola nera da volerci scomparire dentro. Hai tutte le ragioni per aver fatto quello che hai fatto e intuisco, ma non sono una dottoressa, dalle tue parole un possibile disagio che probabilmente va molto al di là della crisi economica. Di sicuro, è stata una tua crisi profonda e personale a portarti al suicidio. Tuttavia, è vero ciò che dici: in molti della nostra generazione di trenta quarantenni non abbiamo ancora cominciato a vivere. Campiamo di lavoretti, di speranze, di gavetta.
E sarei andata avanti ad analizzare, a cercare di capire perché non siamo ancora riusciti, in generale, con le dovute cautele e virtuose eccezioni, a diventare adulti e autonomi.
Ma poi mi sono fermata e ho letto questo libro.
C'è una scena di dialogo tra la protagonista Luce, avvocato di Napoli che vive ai Quartieri Spagnoli e ha trentacinque anni e una donna di nome Carmen. Luce non fa proprio l'avvocato, a dire il vero.
Fa l'apprendista.
A trentacinque anni stiamo ancora imparando... A chi non sono capitati "periodi di prova" in azienda di sei mesi, un anno. Sono chiaramente prove di sopravvivenza che di professionale hanno ben poco. Non dico niente di nuovo, comunque, ormai lo sappiamo tutti come funziona e come non sta funzionando per tutti i Michele veri o fake che siano.
Ci metto anche del mio: un giorno analizzeranno il fenomeno dei blog come questo e magari e scopriranno che tutta questa creatività nasce anche da un'esigenza di sopravvivenza emotiva e materiale. Sti blog sono nati come lunghi, lenti blues che cantiamo in attesa che arrivi qualcosa di vero, di concreto? Non lo so ancora e non lo so più.
Ma dicevo di Luce. C'è una scena che è il click che mi ha fatto fare questo libro, o il "twist" come va di moda chiamarlo adesso, anche se arriva verso la fine. In un dialogo serrato con Carmen, una donna in difficoltà che le chiede un aiuto urgente e serio. Si tratta di andare a riprendere un bambino in difficoltà e il tutto ha a che fare con la camorra. Luce ripete il solito copione dell'impotenza: si schernisce, è solo un'apprendista.
"Non sono io l'avvocato di tuo marito, Carmen, io nun so' nisciuno, è quello che ti ho tentato di dire l'altro giorno. Sono una collaboratrice, una dipendente, una che fa a' gavetta inso..."
Lei non mi fa nemmeno finire. "Nun me ne fott' che fai là dint', Luce, se vuoi bene e Kevìn, e lo so che gli vuoi bene, mi devi aiutare!.
Guardo l'orologio: sono le quattro del pomeriggio. Spengo la sigaretta appena accesa e mi alzo.
"Che fai?" chiede lei.
"Che fai?" ripete don Vittorio.
"Quello che mi hai chiesto, mi prendo cura di Kevin".
Ed è un po' questo secondo me il senso della storia di Luce e della nostra: radicarsi nella propria vita anche quando le circostanze esterne sono il più avverse possibile. Magari con l'aiuto di bambini, cani o rondini come Primavera che si comporta in un modo inatteso e che vi lascio scoprire leggendo,
Tornando a Michele e ai molti Michele che ci sono tra di noi: un libro magari non può fare un gran che. E non è nemmeno così semplice: non sempre e non tutti possiamo fare ciò che vorremmo, a molti di noi non è concessa una vita piena, e nemmeno tanta manovra in quel poco che c'è. Ma secondo me possiamo smettere di fare gli apprendisti quando cominciamo a prenderci cura degli altri, e di quell'altro insicuro che vive dentro di noi. La cura - come si vede dal dialogo - è sempre il motore che ci fa crescere. Non credo che i Michele della nostra società possano essere salvati da un libro, ma credo che per chi resta sia un ottimo balsamo e un buon consiglio per andare avanti.