Jonathan Franzen, Più lontano ancora, Einaudi |
Seguendo all'incirca queste istruzioni, si arriva a creare una barchetta! |
Nel mentre, ho imparato a fare anche una tazzina di carta: è semplicissimo. |
Questo è il libro che aspettavo, con il quale ho deciso di concludere il mio 2012.
E di cominciare il 2013.
Potrei dire che è il mio libro dell'anno.
Finito proprio il penultimo giorno. Lo aspettavo perché su questo tipo di libro, a più riprese, lavoro da molto tempo: in quello che arriva, infatti, scoccherà il decimo anno dalla mia laurea, era l'ottobre del 2003, e da allora, anzi forse da prima, mi appassiono e mi interesso a questo genere di opere.
Nella mia tesi, che riguardava la scrittura autobiografica, ho studiato per lo più di Esperienza, di Martin Amis.
Ho adorato quel libro. E per poterne parlare a ragion veduta, ci ho girato intorno con quanta più cura che potevo, toccando con la mente e con il vecchio pc a pedali anche i Memoirs di Kinglsley Amis (il padre), il Palimpsest di Gore Vidal, Speak Memory (bellissimo) di Nabokov, L'opera struggente di un formidabile genio (uscito da pochissimo, che mi aveva appassionata) di Dave Eggers, Borrowed Finery di Paula Fox (e ci avviciniamo al nostro), Il Diario di Hawthorne, Finestre Alte di Larkin. I Diari di Anais Nin, The Liar's Club di Mary Karr, Autobiografia di mia madre di Jamaica Kincaid (vi sfido a trovare un'autobiografia come si deve in cui la mamma e il papà non permeino ogni singola riga di tutto quanto), dunque l'Amleto di Shakespeare (sic.), l'immancabile Autobiografia di Alice B. Toklas della Stein, e tanti tanti tanti altri, da Tennessee Williams a Carlo Feltrinelli che racconta il padre (e dunque se stesso, ovviamente, per proprietà inversa) in Senior Service - che mi permetto qui di consigliare, per capirne qualcosa in più.
E poi da Marias a Proust a Amy e Robert Lowell, fino, naturalmente, a lui, al prode e nostrissimo Jonathan Franzen.
In particolare, Come stare soli. Il quale mi è servito, tra le altre cose, a capire che la mia natura solitaria aveva (spero) anche un senso, oltre a crearmi sempre un sacco di guai con gli amici.
Perché, vi chiederete, questo improvviso name dropping? Questo sfoggio di pioggia di nomi illustri?
Non certo per dimostrare che leggevo libri anche prima che le case editrici cominciassero a spedirmeli a casa (ma non è questo il caso)! O per dare prova del fatto che anche i blogger sono andati a scuola! No, per un altro motivo.
Per consigliare a chi non avesse ancora mai esplorato questo mondo prospero, laterale e centrale insieme, della tradizione della scrittura autobiografica. In quegli anni, mi ero concentrata sulla letteratura angloamericana, ma il mondo vasto e affascinante del memoir, naturalmente, non conosce confini di spaziotempo.
A muovermi in quella matta ricerca di vite intrecciate di scrittori, era stata un'esigenza famelica, che andava oltre l'ambizione di prendere un bel voto. Mi spingeva il desiderio di cercare maestri. Di vita e di scrittura. Pensavo, cioè, che se avessi imparato a vivere come una scrittrice, magari lo sarei diventata. Quindi, oltre alla lettura dei romanzi, mi impuntavo sulla lettura di questi libri paralleli, ancora più affascinanti, ai miei occhi, delle opere stesse di narrativa. E poi certo volevo capire come funzionavano le famiglie degli altri, com'è che se ne usciva vivi dal bisogno di scrivere.
Ma, come ben sappiamo, O poeta é um fingidor, e dunque, una cosa che ho capito col senno di poi, è di diffidare delle autobiografie degli scrittori. Lo dico con amore, continuando a leggerle e ad adorarle. Però, solo più alla stregua di altre, meravigliose, composite, bellissime opere di narrativa cui semplicemente piace mascherarsi da verità. Immergersi in questi libri, dunque, è un po' come il Carnevale della lettura. Il più bel gioco che potesse capitarvi di giocare. Il più serio.
Ed è con questo spirito, che mi sono avvicinata a Più lontano ancora. Che ci ho navigato dentro con forza, con amicizia, leggerezza e dedizione.
Quello che sapevo io, poiché ne erano stati pubblicati stralci sul New Yorker l'estate scorsa, se non ricordo male, era che questa raccolta conteneva un toccante brano di Franzen sull'amico David Foster Wallace. Sulla sopravvivenza all'amico. E sullo spargimento di parte delle sue ceneri. Dunque, conoscevo il mio destino di lettrice. Quello di soffrire, di affrontare questo dolore. Infatti è così. Ma mi è andata bene, perché il primo di questi saggi si intitola per l'appunto:
Il dolore non vi ucciderà.
In effetti, è vero.
E quel primo piccolo saggio omonimo corrisponde al discorso di Franzen per la cerimonia di conferimento delle lauree al Kenyon College, nel maggio del 2011. All'incirca il periodo in cui, anche qui se non ricordo male, gli venivano rubati gli occhiali a una presentazione di Libertà. E qui subito dice qualcosa che ho sempre ricercato, infatti, in questo tipo di saggi-manuali-testi sapienziali per imparare tutto:
Farò quello che fanno di solito gli scrittori, cioè parlare di me stesso nella speranza che la mia esperienza abbia qualche affinità con la vostra.
Lo trovo sincero, e sublime, ed è quello che io voglio. Come persona che aspira anche a scrivere, poi, ho trovato molto utile, molto davvero, il capitolo che si intitola proprio La narrativa autobiografica.
Dove Franzen torna con tenacia a uno dei suoi grandi temi, che è quello della vergogna. Dello struggle tra l'essere "una brava persona" e lo scrivere romanzi. O racconti.
Ero impantanato nella vergogna per la mia ingenuità, dice.
E racconta come si sia scontrato, nella stesura delle Correzioni, nell'eterno problema dello scrittore: cosa penseranno di me. Insomma, sul senso di colpa.
Questa parte è bellissima. Si entra proprio nella sua cucina, si sente il sapore del suo intelletto, che gira sul fuoco, che arde, che cerca soluzioni. La soluzione che ho capito io è: scrivere sempre, scrivere tutto quello che si vuole, essere leali con se stessi: chi ti vuole bene continuerà a farlo, qualsiasi cosa tu abbia scritto. La scrittura in fondo non è la vita, sono solo sogni diversi, raccontati a parole, e tentativi di bellezza o di mistero o di intrattenimento. Il resto, non ha molta importanza, e non ha a che fare con la morale.
Bè, c'è da dire che il Nonno Franzen, come lui stesso si definisce a proposito di certe posizioni un po' rigide sulle nuove tecnologie, è una fonte, forse proprio per questo essere nonno, di insegnamenti, per me, inesauribile. Tra le cose che non mi importano, infatti, ci sono anche le sue esternazioni un po' da trombone (sempre parole sue, se non erro) che però a me fanno tenerezza. Un'altra cosa che ho imparato da lui è che non si deve andare per forza d'accordo, per volersi bene. Direte che è ingenuo; infatti anche io ho vergogna, non sapete quanta, per la mia ingenuità. Dopo tutto, è un'esperienza comune a molti.
E poi, c'è David Foster Wallace.
(Ma prima, non posso non dirvi di un fulminante, brevissimo e idiosincratico saggetto sul comma-then, cioè sull'abusato "virgola poi" che Franzen, inutile stupirsi, detesta a morte. Impeccabile trombone!).
Era amabile come può esserlo un bambino, ed era capace di ricambiare l'amore con la purezza di un bambino. Se l'amore è comunque escluso dalle sue opere, è solo perché David non aveva mai davvero pensato di meritarselo. Era prigioniero a vita sull'isola del proprio io.
Dopo aver tentato di leggere DFW, e qui ci sono le prove schiaccianti, cercando di fare fronte a tutto, è invece dopo queste poche semplici parole che ho capito davvero la natura della mia stessa curiosità per lo scrittore prematuramente scomparso suicida.
Si vanno forse a cercare i maestri di vita, sperando che ci spieghino perché siamo fatti in un certo modo, attraverso esempi illustri. Se un genio come DFW, di cui qui emerge però anche la natura dipendente, manipolatoria, mistificatrice, depressa, attrice e incontrollabile, pensava di non meritarsi l'amore, allora la vita (non) ha senso anche per noi. In una parola, con questo libro impariamo dai dolori degli altri, che ci sembrano più sopportabili.
Dunque: DFW, proprio lui, l'adorabile, il delizioso scrittore gentile non pensava di meritare l'amore? Quanto si sbagliava.
Quindi questo saggio, il più rappresentativo, da cui il titolo e la copertina del libro (che ho comprato con i miei soldi prima di Natale in un giorno che poi si è rivelato anche un po' fortunato), racconta comunque il viaggio solitario di Franzen, con le ceneri dell'amico, nell'isola Masafuera ("più lontano") che si trova nel bel mezzo del Pacifico meridionale, con le sue "inaccessibili pareti verticali" e "popolata da milioni di uccelli marini e migliaia di otarie orsine ma non da esseri umani".
Qui, Franzen può finalmente (ma vedremo con che esiti) dare spazio alla propria cupa natura meditabonda e al suo essere un noto birdwatcher. Un'attività affascinante, di osservazione, di purezza, conoscenza e cura verso i volatili che, fatalmente, annoiava invece molto DFW; e la vita in questo sancisce, simbolicamente, la differenza tra i due amici. Uno conservativo, vivo, osservatore, calmo, per così dire, e razionale, attaccato alla terra e al cielo.
L'altro, consegnato per sempre alla posterità, al mito, al sacrificio degli affetti e dell'osservazione in favore dell'eterno.
Detto in parole povere.
Infine, tutto il resto. Franzen ci dona uno stancante e decisivo viaggio nelle sue esperienze (bello il capitolo Cieli silenziosi ad Assisi - dove si dice di San Francesco che con gli animali, come è noto, ci parlava anche), nelle sue letture: dalla sua maestra Paula Fox, alla bellissima difesa di Alice Munro, al curioso La più grande famiglia mai narrata in cui si profonde in lodi a un bizzarro romanzo, guarda caso sul tema della famiglia, di Christina Stead.
Passando da certi episodi di vita così pieni di significati (vedi Calabroni), a excursus inveterati ma edificanti sul matrimonio, sulla coppia, sul nonsense.
Ecco, io finirei, anzi inizierei l'anno così. Con del sano nonsense. Ma anche con le cose care e sensate, di buon senso, cui si ritorna, lo sto imparando adesso, ciclicamente nella vita.
Con i maestri che ci si va a cercare tra le pagine dei libri. Che poi si ritrova dentro di sé, magari imperfetti, ma sinceri. Con la scrittura, con il pregio delle differenze, con l'amore che non è come pensiamo noi.
L'ultima frase del mio ultimo (e primo) libro dell'anno è dunque questa:
E d'un tratto sono di nuovo innamorato.
Che, poi (scusi Franzen per il comma-then) è questo l'unico auspicio o buon proposito che faccio a me stessa e a voi per l'anno nuovo.
Di sentirci sempre innamorati.
Di cose o persone consuete o di cose o persone nuove, ciascuno saprà e sceglierà il suo modo. Ma la sostanza, spero per tutti, sia questa. Sentirci di nuovo innamorati, d'un tratto.
Per tutto il 2013 ma anche oltre.