giovedì 25 agosto 2016

Taccuino di caffè - focus Salone del Libro


Scrivere, in queste ore così difficili per il nostro Paese, non è facile. Ieri ho cercato di rispettare un giorno di silenzio e ho preferito leggere le informazioni sul terremoto che ha colpito il centro Italia. Nel piccolissimo della mia vita, ho vissuto anche una settimana particolarmente impegnativa e le parole faticavano a fluire in modo ordinato. 

Oggi ho puntato la sveglia un'ora prima, però, e ho deciso di mettermi al lavoro su un tema che mi è molto caro. La testa e il cuore sono a chi sta affrontando le difficoltà più grandi, ma qualche pensiero sul mio taccuino settimanale voglio dedicarlo a un tema leggero, eppure sentito da chi ama i libri e la lettura, come il Salone del Libro. Il #SalTo.

Ecco il frutto delle mie riflessioni.

Ho pensato a lungo al Salone del LIbro in questa estate di scandali e prospettate rivoluzioni per una delle istituzioni più amate non solo dai torinesi ma da molte persone di tutte le età e provenienze geografiche. Continuo a leggere numerosi commenti, altrettante proposte di ulteriori cambiamenti da apportare. Anche io stessa mi sono arrovellata per immaginare come o cosa fare, come contribuire.

Un piccolo flash back sulla mia storia. Il Salone del Libro, qualche anno fa, ha coinvolto e interpellato anche me. Era il periodo della cosiddetta "primavera digitale", un tempo non lontano in cui molte realtà - case editrici comprese - hanno cominciato a guardare al mondo del web e ai fantomatici blogger con un intresse notevole. Nei diversi convegni cui sono stata chiamata a dire la mia, però, ricordo d'aver sempre sottolineato - alla mia maniera che forse poteva risultare un po' naif - che questa dei "blogger", se mal gestita, poteva risultare una "bolla di sapone". Sentivo sulla mia pelle, infatti, aspettattive troppo grandi, irrealistiche. 

La situazione è precipitata rapidamente poi in una dinamica da "sedotti e abbandonati" quando le suddette realtà hanno capito che non saremmo stati noi "del web" a sollevare fatturati in crisi, quando non agonizzanti. Così, ahimé in parte devo riconoscerlo, è stato anche per il Salone. E, inutile dirlo, la cosa non ha funzionato. O meglio: sono lieta di notare oggi quante e quanti blogger letterari abbiano - dopo di me - seguito un percorso simile al mio (non è che mi vanti di aver inventato chissà che, però riconoscetemi il primato di sicuro nell'abbinare libri e tazzine di caffè sui social network in un'epoca internettiana vettoriale (poi v'è sfuggita un po' la mano eh!) e riconoscetemi un modus operandi e scrivendi che sono contenta di ritrovare nelle penne  più giovani del web), ma non c'è blogger che tenga quando si tratta di economia reale.

Come avete ben visto tutti (addetti ai lavori e non) il problema era alla base. 

Quindi ecco il punto delle mie numerose meditazioni in proposito: potremo tutti discutere a lungo - secondo modalità più o meno raffinate o arzigogolate a seconda dei nostri livelli di cultura o narcisismo - ma il nocciolo è da un'altra parte. 

Mi spiego meglio: possiamo parlare di contenuti. Possiamo parlare di digitale, di crossmedia, di estero, di vetuste regole o di futiristiche amenità, ma il male, cari dotti e dottori, è a monte. 

Il fatturato del Salone può farlo il Papa, gli youtuber, Ligabue, Saviano, Totti, Baricco, i bambini delle scolaresche, le donnicciole o mio nonno: non è questo il nostro problema.  

Certo, cogliere l'occasione per rinnovare tutto, dai contenuti ai soggetti coinvolti e addirittura agli spazi fisici, è una bellissima opportunità ed è giusto che molti attori del mondo culturale si scatenino con rinfrescato entusiasmo a riprogettare il Salone. Ma il tema non sono i contenuti. Il tema è la gestione. La dirigenza, l'organizzazione. Banale, direte voi. Eppure, andiamo più a fondo.

Cosa è successo davvero?

Il Salone andava bene. Da trent'anni! Come sottolineano "i professori" nel loro appello, recentemente pubblicato (che potete trovare qui). Il guaio, l'impeachment, è nato per altre ragioni, soprattutto per questioni legali.

Per farla breve, una cosa è mancata sul serio. Non i contenuti, non i temi, non le capacità o le idee. 

Purtroppo è mancata la serietà. La vecchia cara serietà. 

Perdonatemi un flash back ancora più in là negli anni. Mi ricordo che quando scrivevo le mie prime cose, per riviste cartacee o testate on line, mi veniva rimproverato un eccesso di "serietà". (Sì, beh, nel mio caso poteva trattarsi anche di uno sconfinamento nella seriosità: ero una tardo-adolescente che si prendeva troppo sul serio, un topino da biblioteca). "Scrivi qualcosa di più accattivante", mi dicevano. E così, mi sono sbattuta a scrivere qualcosa di più accattivante. Solo adesso, dopo tanti anni, ho capito ahimé che dentro quell'accattivare c'era il concetto di imbonire, ingraziarsi. E soprattutto, era contenuta la cattiveria. 

Questo succede quando si rinuncia alla serietà. Quando, per entrare nello specifico del Salone, secondo le notizie che ci sono giunte, si truccano gli appalti per favorire sempre le stesse ditte. Si accattivano le stesse persone. Accattivarsi le persone che contano. Le famose clientele e il familismo che, lo sapete meglio di me, infestano il Salone del Libro ai livelli di comando. Più che topini da biblioteca, lì si trattava di ratti di fogna, se mi passate la metafora.

Non sono le idee il problema, non sono le tematiche o l'approccio culturale (anche quello, ok, ma in maniera non-drastica). Il problema è la serietà.

Immagino di parlare a un bimbo piccolo e dirgli "non si fa". 

Truccare le gare -------> non si fa.
Raccomandare ------> non si fa.
Contratti "usa e getta" (e ne ho sentiti parecchi) -------> non si fa.

Il problema è alla base. E pur tuttavia, non sono affatto convinta che, cambiando la dirigenza e lavorando sulla serietà, cambierebbero i contenuti. Resterebbe probabilmente tutto uguale, ma il bilancio forse smetterebbe di languire in modo così impietoso e si navigherebbe più serenamente verso il benedetto futuro di cui tutti parliamo ma di cui nessuno, in defininita, sa niente. 

E bon. Ci vorrebbe qualcuno che si prendesse la briga - secondo me - di rieducare i gruppi di lavoro sul tema dell'etica (con buona pace della morale). E credo che ne abbiamo bisogno tutti, nessuno escluso.

Non potrò mai scordarmi cosa mi disse un professore universitario, Marziano Guglielminetti, che ora non c'è più, dopo avermi appioppato un 28 sulla letteratura barocca. Eravamo in tram e mi disse: "resti libera, non si irregimenti".

Insomma, ci tocca piantarla con tutti questi minuetti intellettualistici e guardare la triste realtà: il Salone, insieme alla serietà ha perso la libertà, per favorire questo e quell'altro, ha finito per irregimentarsi male, e infine per decadere. 

In definitiva, la corsa al cambiamento è vana, ci lascerà senza ossigeno se prima non ritroviamo il valore - semplice e autentico - della serità lavorativa. Dei conti, della selezione del personale.

Il Salone, rispolverando questa bella canzone di Frankie Hi NRG, dunque potrebbe cominciare a dare qualcosa, anziché chiedere, chiedere. Sono curiosa di osservare gli sviluppi. 



1 commento:

Anonimo ha detto...

Ciao.

Hai centrato il problema. Sembra che siamo assueffatti a comportamenti clientelari che non ci stupiamo mai di nulla. Come dici tu spesso il problema non è propriamente il contenuto che inseriamo nelle manifestazioni culturali più o meno grandi, ma come gestiamo gli eventi. La logica del guadagno facile porta a gente che si arrichisce, ditte che vincono sempre le gare ed enti che sono sempre più in perdita. (Luke)