Un bel documentario di Giovanni Piperno sulla famiglia Agnelli. Lo avevo perso al Torino Film Festival, ho recuperato domenica. Un po' inquietante la danza del pinguino (vedere per credere) ma tutto il resto vale la pena.
Tra i punti nodali del film c'è la povera persona di Edoardo, figlio dell'Avvocato, morto suicida. E come lui, anche un altro "pezzo mancante" - i toc, mi vien da pensare, che in piemontese sono proprio i "pezzi" cioè le parti che compongono le automobili e che si producono nella fabbrica, e qui la fabbrica è una sola e resta quella nell'immaginario e nella vita di tutti.
Un altro pezzo: Giorgio, fratello dell'Avvocato, suicida anche lui all'età di 36 anni.
Reietto della famiglia, evocato qui nel film soprattutto da quella che fu la sua fidanzata per dieci anni, una poetessa con un grosso paio di occhialoni e uno sguardo tenero, un po' comico a dire il vero, un po' sconsolato, a essere sinceri.
Il film mi ha portata a forza verso alcune riflessioni. Ad esempio il tema che non passa mai di moda dei "privilegiati" o se vogliamo esser crudeli dei "raccomandati".
Io non ho mai sentito nella mia vita un "raccomandato" dire: "sono raccomandato". Oppure: "valgo come gli altri però ho avuto più fortuna". Ho sempre piuttosto ascoltato discorsi del tipo: "non sono raccomandato, sono bravo e gli altri mi invidiano". La meritocrazia.
Ora: io vorrei spezzare una lancia invece proprio in favore dei raccomandati. In effetti la "raccomandazione" ovvero quella cosa sporca da operetta, da Padrino, che si vede nei film, per me non esiste. O se esiste, non porta mai da nessuna parte, perché spesso quel tipo di "raccomandato" è un vero disastro e non combina niente di buono, raramente viene tollerato, il più delle volte è un "gaggio", come si dice a Torino.
I veri raccomandati, ma è una bruttissima e vana parola, ne userei un'altra se solo mi venisse in mente, comunque loro, come ad esempio i migliori Agnelli o nipoti del momento, sono davvero bravi. E aggiungo che è normale. Questa è la natura, è Darwin.
Tutti saremo d'accordo credo nel comprendere come un cosiddetto rampollo di buona famiglia, e non mi riferisco solo ai soldi, che pure sono importanti per lo svolgimento di una vita serena, intendo uno che nasce da una famiglia solida, ragionevole, controllata negli impulsi, lucida, orientata, decisa, costante nelle emozioni, propositiva e sicura, possa evolvere successivamente in individuo predisposto alla socialità e infine a un qualche talento.
Mi pare altrettanto chiaro come possa rivelarsi piuttosto disagevole la vita per un coetaneo proveniente invece da una famiglia povera, di soldi e di stimoli (ma spesso le due cose coincidono).
Sicché nessun raccomandato saprà mai e accetterà di essere raccomandato perché il "riuscire" nella vita gli apparirà un vero talento naturale, come in effetti è, però quello che gli sfugge è che quei talenti, oltre al denaro, sono stati possibili specialmente grazie alla buona base emotiva, caratteriale, strutturale della propria famiglia d'origine.
Al contrario invece i reietti della società, o anche solo chi resta indietro, hanno la tendenza a dare tutta la colpa ai "raccomandati" senza capire di essere essi stessi davvero intrinsecamente mancanti di quei talenti - tecnici o più spesso del comportamento ma le due cose a volte ricoincidono - che nella vita contraddistinguono e favoriscono gli oggetti del loro risentimento.
In una parola, perdonatemi le categorie grossolane e se vogliamo assai banali, di solito un povero (il quale ad esempio non riterrà mai di potercela fare con le proprie gambe e nella migliore delle ipotesi cercherà - perché non conosce sul serio alternative - il gancio, l'appoggio anche affettivo di qualcuno di potente - ma leggi anche "sicuro" - e cercherà fatalmente la "raccomandazione"); dunque il povero è davvero più scarso del ricco.
E se non dal grembo materno, di certo già dalla culla. Perché la raccomandazione vera non serve: si capisce già chi sei e come lavorerai e come amerai oppure quante cose accetterai da uno sguardo, da un silenzio, da una capigliatura, da un modo di contorcere le mani, da un affanno, da un paio di scarpe, da una toppa, da una falla: puoi provare a camuffarti, ma la verità è una: presto o tardi scioglierà la tua impalcatura protettiva, la tua recita, come il sole fa con la neve.
MA. MA. MA: se fosse proprio tutto così saremmo all'inferno. Saremmo in una distopia, sarebbe la fine, mi vien da dire la fine per tutti quanti, la vita da una parte e dall'altra non avrebbe un vero senso.
Invece in film come questo ecco la dolente, tragica, eppure vitale risposta: le eccezioni.
Il nostro mondo, del lavoro e non solo, è 99% matematica e 1% di mistero, di magia, di caso, di, appunto, eccezioni. Che nella disgrazia si chiamano Edoardo Agnelli, Giorgio Agnelli, e nell'altro senso, quello cioè di esseri, di talenti che invece ce la fanno pur spuntando fuori da basi traballanti quando non svantaggiose, i nomi anche sono tanti.
Uno bravissimo a scovare questo tipo di storie a lieto fine è Mario Calabresi: leggendo ad esempio il suo La fortuna non esiste ne trovate qualcuna di eccezionale.
:)