sabato 21 novembre 2009

Latte.

"All'ospedale quel mattino alle 6 la suora mi ha dato il latte nel bicchiere di plastica, poi è scappata via. E tu fuori non potevi entrare.

E guardavi i barboni nella sala d'attesa e ti addormentavi sulla sedia di legno fredda. Il latte fumava, era bollente e mi bruciava la gola ma ne avevo così bisogno e lo bevevo piano per non finirlo, per fingere che il tempo passasse e invece non passava. I malati gravi con le mascherine mi guardavano male. I vecchi con la pelle di cenere tossivano anche per dieci minuti di seguito. I tubi delle flebo si intrecciavano come in un telaio e io non ci potevo passare dentro per uscire. Per scappare da te. Mi sgridavano, mi costringevano a restare ferma lì. Lo facevano a gesti perché io non capivo una parola e non rispondevo. Da quando ho messo piede in quella terra maledetta ho iniziato a soffrire. Ma a casa mia non ci potevo tornare. Ero povera. Eravamo poveri, poverissimi. E neanche più tanto giovani. Soli, affamati. Senza un letto dove dormire".

(Anita Sjcan,
Latte)

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