Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Biblioteca della Pléiade Einaudi - Gallimard |
Ho un piccolo rituale: tutti gli anni il 25 aprile leggo un passo di Fenoglio. Il 25 aprile è una delle feste più importanti per il nostro Paese e Fenoglio è, a mio parere, ma non sono certo l'unica a pensarlo, uno degli scrittori che maggiormente ha saputo cantare le gesta degli eroi di un periodo storico tanto complesso quanto signiticativo per l'Italia.
Raccontare gli anni della Resistenza, i partigiani, e farlo con un linguaggio tanto accurato e rivoluzionario è stato il suo merito. Senza contare che Fenoglio morì giovane, appena quarantenne, e che questo suo capolavoro fu pubblicato postumo.
La vita di Fenoglio, se non bastassero le sue opere a certificarlo, è stata sintomatica di un tipo di autore, e di essere umano, di quelli che ne nascono pochi, molto pochi. Come scrive Dante Isella nell'introduzione a questa mia copia (che mi porto dietro dall'Università e cui sono molto legata):
Strano destino, il suo (perché proprio da esso occorre partire), che con una mano gli ha fatto dono di una rara vocazione di scrittore, integra, assoluta, a cui votare tutto se stesso; ma che ha chiuso l'altra a pugno, concedendogli una vita avara, troncata a soli quarant'anni. Così che molto del moltissimo che gi riuscì di scrivere, è stato pubblicato sulle carte ritrovate dopo la sua morte. Non solo: il suo vivere appartato in un angolo dell'antica provincia piemontese, estraneo all'establishment letterario e libero dalle feroci gabbie ideologiche degli anni in cui gli toccò d'operare, l'aiutò senza dubbio a mantere intatta, come riconobbe Calvino, la carica necessaria per scrivere, quando nessuno più se l'aspettava, il romanzo che tutti avevano sognato (dando così coronamento e senso al lavoro di tutta la sua generazione); quella che però fu una feconda scelta di vita, non potè, nei rapporti con i detentori del potere letterario, editori e maitres à penser, non costargli un altissimo prezzo di incomprensioni e di soggezione, tra soprassalti d'orgoglio e repentine, disarmate obbedienze.
Prosegue Isella vedendo in Fenoglio una sorta di opposto di Pavese. E se prorpio vogliamo interpretare la vita come una contrapposizione di poli, forzando un po' le cose, io mi sento in questo momento più vicina a Fenoglio, ma questo è un gusto personale, come spesso accade su questo blog.
Cosa posso aggiungere sul romanzo in questione? Non è una lettura semplice, anche se semplice è la trama: uno studente come tanti, affascinato dalla letteratura inglese, decide, dopo l'8 settembre, di lasciare la sua vita ordinaria e di combattere come partigiano nelle colline delle Langhe.
Aleggiava sempre intorno a Johnny una vaga, gratuita, ma pleased and pleasing reputazione d'impraticità, di testa tra le nubi, di letteratura in vita...
Seguirlo, tra azioni partigiane, armi, fughe, camminate, agguati, disperazioni e "disastrosi malesseri" alternati a entusiasmi improvvisi e giovanili è una delle avventure umane e letterarie più importanti che si possano fare studiando la nostra narrativa. Personalmente, ho questi ricordi di gioia assoluta, nel leggere di storie paradossalmente di affanno e dolore, gusto di un linguaggio che frammista l'italiano e l'inglese, il greco, i tre puntini, la sobrietà e l'estro.
L'ultimo capitolo si intitola La Fine ed è proprio la fine della guerra, la Liberazione. Credo che questa, come altre, sia una lettura necessara a tenere vivo il ricordo di cosa siamo stati capaci di fare, in ogni senso, nella Storia recente, per provare, ognuno a suo modo, per quel che è possibile, a costruire un futuro.
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