Don DeLillo, L'uomo che cade, Einaudi |
Dopo il risultato delle elezioni americane tocca fare come quando tu o quelli a cui vuoi bene fate qualcosa che non va: continuare a volerti e a voler loro bene lo stesso, e amen. Lo dico perché l'America (del Nord e del Sud) è un posto cui sono legata, che ho studiato e che rispetto. Le letture più importanti della mia vita vengono da lì, e DeLillo è una di quelle.
Siccome questa rubrica riguarda proprio le mie letture angloamericane (che è ciò in cui mi sono laureata e con cui sono diventata adulta) il dubbio mi è venuto: che fare? Su Trump e Clinton si sono scritti fiumi di inchiostro e io non sono certo una politologa.
Da Body Art nel 2001 rimasi molto colpita, mentre sono un po' più ignorante sulle prime opere, di cui ho un ricordo da studentessa ma meno attuale.
Credo contestualmente di essere una delle poche persone al mondo a non aver ancora letto Zero K (tradotto a quanto pare magistralmente da Federica Aceto), DeLillo è stato a Torino, presentato da Culicchia (che ha presentato anche me, giuro è vero) almeno a giudicare dall'Internet e dalle infinite condivisioni di informazioni e articoli su quel libro. Rimedierò, ma intanto mi è successa questa cosa.
Dovete sapere che L'uomo che cade è in assoluto il primo libro che è apparso su questo blog.
Ho aperto il blog il 14 febbraio 2008 e il 15 parlavo di questo romanzo in due sole righe, prima ancora di iscrivermi a twitter e di affacciarmi dunque alla sua forzata brevità, ecco qui il mini-post.
Poi mi è accaduto il 9 novembre di quest'anno di guardarlo sbucare dalla mia libreria (uno dei pochi libri risparmiati dal topo, per saperne di più, guardate qui ).
Ci penso un attimo e capisco che il 9/11 è l'opposto dell'11/9, che è il tema del romanzo stesso.
L'uomo che cade, cade dalle Torri Gemelle e la storia di questo libro è tutta lì, in quell'episodio che ha cambiato (forse) il mondo.
Ognuno di noi ha il suo ricordo di quel giorno, io (perdonatemi l'autoreferenzialità di questo blog) avevo 21 anni e quel pomeriggio dovevo rispondere a un'intervista radiofonica perché avevo scritto un articolo su Marie Claire che parlava di "biotipologie", va a sapere che sono, non me lo ricordo più. E così lo speaker (non mi ricordo manco la radio) voleva saperne di più e mi telefonò. Parlavamo quel pomeriggio di sole come reduci - soli - nell'Universo perché nessuno ha mai ascoltato, credo, quella conversazione radiofonica, dal momento che tutti, ma proprio tutti quelli che ce l'avevano erano incollati alla tv per capire che diavolo stesse succedendo.
DeLillo infine con questo romanzo interlocutorio e doveroso fa quello che deve fare uno scrittore: ha preso quei fatti, enormi, di una complessità senza rimedio; li ha digeriti, rielaborati e confezionati in una forma d'arte fruibile per noi comuni mortali.
Le prime tre pagine sono la perfezione letteraria pura (non ho idea di come sia Zero K ma se è così, ottimo auspicio!). E dunque il libro si suddivide in tre parti, ed esplora tre tematiche: la storia di una famiglia, come si dice, "disfunzionale", la storia intima e impietosa dei terroristi e la storia di un artista.
Questo libro è un messaggio piuttosto chiaro del suo autore che, non saprei dirlo con parole meno semplici, punta all'essenziale, al "punto omega". Per me, risente, o trae giovamento, di un lavoro di lima serio, intimo e definitivo. Questa è la voce di un autore che torna al nocciolo delle radici della base della sua scrittura e della scrittura di tutti, punta e si consuma nell'universalità che ci tocca tutti. Lo fa a partire da qui, forse un po' prima, e a quanto pare lo fa per arrivare a Zero K.
E se non è un messaggio, è senz'altro una dichiarazione di intenti e una indicazione stilistica.
Non lo so, ma credo che funzioni proprio come gli affetti più cari: ti vuoi bene solo cambiando. Continuo a voler bene a quella parte di mondo che per me ha significato così tanto, nonostante tutto. So che è un sentire comune, vediamo cosa succederà. Intanto è morto Leonard Cohen, vi lascio con un suo brano. Buon ascolto.
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