domenica 13 novembre 2011

Stratorino! 7,5 km di corsa.


Ecco lassù nella foto i miei cimeli podistici :)

Era una mattina di novembre, questa di oggi, particolarmente fredda. Il meteo diceva sole ma le ansie più ataviche che martellano dalle profondità del mio animo inquieto insinuavano l'esatto contrario: e se piovesse?

Come spesso accade, verso le otto: non ci trovavamo in nessuna di queste due possibilità: non pioveva, né c'era il sole. Il grigio-Torino vegliava invece su tutte le migliaia di sabaudi (no: c'era gente da tutto il mondo, perché si correva anche una maratona vera: 42 chilometri di lieta torinesità) accorsi per le tre gare di questa domenica quanto mai sportiva: la Junior Marathon: hehe i bambini che corrono, fa tenerezza. La suddetta maratona (non so se ce la farò mai, ma ora però punto alla mezza e lo annuncio: tenterò i 21 chilometri a dicembre per la Royal Half Marathon per Telethon!! ok, vabè: casomai mi porto un libro da leggere!). E infine, ci siamo: la nostra gloriosa Stratorino: 7,5 chilometri con partenza da Piazza San Carlo (il salotto buono di Torino) e arrivo sempre lì in un previsto simpatico clima festaiolo.

Alla partenza ero agitata: guardavo l'orologio digitale sopra il palazzo a sinistra di Via Roma che segnava +9° non so, a me sembravano di meno: avevo brividi e fitte intercostali psicosomatiche, starnuti, visioni catastrofiche della vita, delirio di rovina. Per un attimo ho pensato: non la faccio.

Perché, sapevo bene, mai sottovalutare le sfide piccole: è vero che avevo già corso la Tuttadritta (qui!) ed erano 10 km ed ero, per così dire, solo all'inizio della mia brillante carriera di runner. Ed è vero che poi ho corso questa. Bella faticosa. E questa: forse la mia preferita. Quindi oggi era, cavoli, la mia quarta gara! Eppure, non so perché, ero molto più tesa del normale. Credevo sinceramente che avrei interrotto a metà, per mettermi a camminare, perdendo la sfida (con me stessa, chiaramente!). Ed è proprio quello che fa più paura, in genere. Perché gli altri: bè, le variabili sono sempre le stesse e molteplici:

ci sono quelli bravi, che tirano come vento da est e lasciano indietro solo mucchietti di foglie gialle a vorticare.

E ci sono anche quelli che li vedi così e sei sicura, per quanto sono male in arnese, che questa volta li supererai di netto - le mie rivali numero uno: le anziane. Con i capelli bianco latte e le chiappone: le peggiori ossia le più svelte di tutte: giuro che ancora non ho capito come fanno; o quelli col passeggino che scanna senza pietà - e invece appunto ti superano dopo il primo chilometro: e il mondo va veloce e tu stai indietro.

Così, alla soglia del terzo, ho, come sempre, stramaledetto il mondo, la vita, il Comune di Torino, Piero Fassino, gli agnolotti del plin, i rubatà e naturalmente il mio fidanzato che - nel mio immaginario alla David Lynch di quell'istante - era forse già arrivato e si fumava un sigaro in vestaglia di seta dentro un lascivo bagno turco, alla faccia mia.

E come sempre invece al quarto-quinto qualcosa è cambiato. La vita e il sangue che ti scorrono dentro sono potenti come il fiume che punta alla sua ineluttabile destinazione: le guance diventano rosse, il sudore sulla fronte che ti dice che stai facendo qualcosa di reale e tangibile, le gambe che spingono sul serio: e quella ostinata voce - la tua - che ti comunica (grida) che ce la farai, che ce la stai già facendo. (Sì, poi ti giri e sei in coppia e perfetta armonia con il solito tredicenne sottopeso e paonazzo, forse tisico, ma va bene, va bene lo stesso).

I tamburi che di tappa in tappa incitavano i corridori sono stati la cosa più emozionante. C'è una corrispondenza cuore-tamburo che non sapevo. Che fortifica. C'è un tipo di musica che simpatizza con la resistenza, con la ferocia.

Il primo, in Corso Cairoli, lungo il Po: una batteria suonata da un bambino bravissimo: ho alzato gli occhi da terra e c'era la grande distesa d'acqua, sovrastata dall'elegante architettura bianca di argini e ponti, le piante brumose, protettive come caverne, la folla in continuo movimento puntinata di molti colori dentro cui la mia maglietta nera scompariva, si tingeva di verde, di blu, di rosa, di rosso fuoco, di giallo squillante, di nulla che scompare nel tutto: come un urlo che diceva: fai tutto, ma non smettere di correre. Pensa quello che vuoi, ma non camminare. La fatica, la fatica: pensavo, come tutte le altre volte, che era quello il mio problema. La fatica, esiste, bussa alla tua porta, non puoi non aprirle. Solitamente provo a fregarla, offrendole un caffè zuccherato per addolcirla. Ma a volte invece comanda lei: si stufa delle mie moine e mi sfida con violenza. E quando ti capita, tu le devi gridare contro.

Comunque, ansimando asmaticamente, sono arrivata a tagliare il traguardo (e, credeteci o no: anche con un netto miglioramento rispetto al tempo della prima gara, uhm un 6% circa ecco) non ho camminato, ma alla fine mi sembrava di svenire: tutti i sabaudi etc. accalcati e piantati lì come una massa critica, un muro umano informe e fastidioso, lame di gelo che tagliavano sotto il collo.

Però la medaglia mi ha ritemprata: a me piacciono queste cose: i gadget :) E finalmente, tra coppie, gruppi, classi di runner professionisti, famiglie, cani, palloncini, iPod, ecco anche il banchetto della frutta e della colazione. Marmellata, fette biscottate e mele gialle. Sì, è proprio lì che arriva il bello: avevo finito, la mia guerra per oggi era finita e l'avevo di nuovo vinta.

p.s.

Come preannunciato in qualche post fa per l'uscita del suo #1Q84, ho pensato correndo a Murakami Haruki, al più tenace, sincero maratoneta scrittore che io conosca.

C'è qualcosa indubbiamente che va oltre lo spaziotempo.


2 commenti:

Zuccaviolina ha detto...

brava Tazzina, sono molto fiera di te. :)
Comunque sulla base della mia esperienza etnomusicologica ti posso dire che c'è davvero, anche nella nostra cultura occidentale (e addirittura sabauda) una corrispondenza tra ritmo del cuore, o perlomeno del passo, e suono del tamburo. Infatti i soldati del '700 marciavano al suono di pifferi e tamburi, che erano parte fondamentale e irrinunciabile di ogni esercito, più degli infermieri e delle vettovaglie. La musica era un linguaggio vero e proprio che poteva dare ordini o avvisare del pericolo, oppure semplicemente accompagnare la marcia, passo per passo, battito per battito, aiutando a vincere la fatica.
Una volta in spedizione etnomusicologica ho seguito per ore il gruppo di pifferi e tamburi che suona al carnevale di Ivrea e ho vissuto quella stessa sensazione: è impossibile, camminando insieme a loro, non muovere ogni passo a ritmo. Davvero, è più facile farlo che non farlo. Bellissimo.
E bellissimo anche il tuo post, mi è sembrato di correre con te! ;) (cosa che non sarei mai in grado di fare, eheh)

noemi ha detto...

@Zuccaviolina: ciao!! Grazie: immaginavo che fosse così, ma sentirlo dalle tue parole me lo ha confermato... :) un abbraccione :)