In una casa con un ragazzino asmatico il Ventolin non manca mai, ma quella sera, per uno scherzetto piccolo del destino, l'erogatore aveva smesso di funzionare. La mamma, preoccupata come sempre, aveva chiamato la guardia medica, considerato che la, a-occhio-non-grave-ma-non-si-sa-mai, crisi di Marco era sopraggiunta a mezzanotte e mezza.
Incassata la sgridata della donna dall'altra parte della cornetta, "deve sempre tenerlo del cortisone in primavera in casa, eh", la mamma si era messa al balcone ad aspettare il medico. Marco fissava il soffitto, seduto sul divano, respirando un po' a fatica.
La mamma in quei casi si sentiva persa. Completamente. Si mangiava le unghie, si stringeva nel golfino. Il dottore tardava, le macchine scorrevano rade e lente, la terra ricoperta dal cemento, per la prima volta, vista dall'alto, le era parsa ondulata, diseguale, molto più imprecisa dell'idea di città che lei da sempre aveva nella mente. Ogni albero era diverso da quello di fianco, la fila delle auto parcheggiate molto meno dritta del previsto. Le nuvole frastagliate, tutto disomogeneo.
Marco intanto si confrontava in silenzio e senza saperlo con i privilegi dell'asma, che non è un limite ma un'opportunità. Quella di sapere che la vita, come la quantità di aria a disposizione di ciascuno, ha un limite oggettivo. Quando è deciso, stop. Tutti lo sappiamo, ma gli asmatici hanno di questo un'esperienza diretta, viva e per certi versi, sopravvivendone, fortunata.
La mamma considerava i medici dei salvatori. La salvezza aveva il suono del citofono; senza dirlo, quella era la sua verità. Qualsiasi cosa si risolveva con un medico.
E alla fine, anche quella sera, il citofono aveva rotto il silenzio rumoroso della palazzina.
Il dottore. Spettinato e quasi calvo, lasciava che un ciuffo di capelli bianchi gli ricadesse sugli occhi senza opporre resistenza. Maglioncino di cotone troppo pesante per il clima estivo; mole imponente e uno zainetto dentro cui erano schiacciati e compressi strumenti da lavoro in eccedenza, tanto da strabordare dalla cerniera.
Il dottore. Entrava trafelato, confuso e contento, quasi, di essere approdato proprio lì. Ha chiesto subito di un letto, diceva di mettere il bambino nel letto. La mamma, ostinata, prendeva ad affidarsi a lui, non vedeva null'altro che la qualifica, non il resto della persona in affanno.
Il dottore. Visitava Marco. Ma il broncospasmo era passato, si sentiva solo un fischio flebile, il bambino aveva ripreso vivacità, stava benissimo.
Il dottore. Auscultava il piccolo cuore. Indugiava un po', pochissimo, più del normale. Come a nutrirsi della vita che germogliava, sicura, dentro Marco.
Poi ha riposto, spingendoli con grande sforzo, gli strumenti e il blocchetto sgualcito delle ricette. Guardava la casa. "Finalmente una casa disordinata". Ha detto, fissando il pavimento. Tutto sommato, ha detto, è un bene per il bambino.
La mamma si affidava al dottore, ancora e ancora. Non vedeva che gli trema una mano. Non vedeva che le guance, sul volto anziano e pallido, stavano diventando rosse, crepandosi come il guscio di un uovo che si spezza. Di un uomo con la vita spezzata in due.
"La mia vita è spezzata in due". Diceva. E la mamma aspettava una ricetta, che le spiegasse cos'ha Marco, che medicine...
"Morti i miei genitori, non mi sono più ripreso. Ho perso clienti, ho perso credibilità. Sapesse come vivo. Non ho la forza di andare dallo psicologo. Faccio la guardia notturna perché mi tollerano, di malavoglia".
La mamma pensava che era tutto risolto, ora che c'era il dottore.
"Ho perso anche mia moglie. Mi ha lasciato ieri".
A quel punto la mamma ha sentito le parole. Come quando si stappano le orecchie dopo la piscina. Quello non era più il dottore che la salverà. La mamma ha quarantanni.
Sarà lei a salvare il dottore. O per lo meno gli offrirà una camomilla, un biscotto secco e una parola di più, anche se è l'una e mezza e domani Marco ha la scuola che lo aspetta.