Ogni volta che entravo in quel bar, il bar Santa Monica, sentivo come dentro di me un saluto luminoso, Aloha, mi dicevano le magliette sempre diverse con le scritte colorate di Alberto e di Beatrice. Erano loro i proprietari del bar e ci lavoravano: servivano ai tavoli e cucinavano i primi, i secondi, le macedonie, i panini, le focacce farcite e i toast. Tranne d'estate quando non ci andava quasi nessuno, eccetto me. Ed è successo in quell'estate di qualche anno fa che siamo diventati amici. Ed è sempre un mistero come nascono certe cose.
Stavo lì, in silenzio. Mentre si diffondeva nell'aria un profumo di latte e caffè, di pulito e di pane tostato. La ventola sul soffitto girava costante e veloce, bianca e oscillante, sembrava dovesse staccarsi da un momento all'altro e invece non si staccava mai. Non avevo niente da fare. Ma niente di niente. Ed ero preoccupata e non sapevo più come passare il tempo. Al Santa Monica in quei giorni il tempo in effetti non passava mai per nessuno. Beatrice si annoiava, andava su e giù dalla cucina e aveva gli occhi azzurri sempre lucidi, come durante la febbre. Alberto stava al computer, un portatile piccolo e lucido, che teneva in bilico dietro la vetrinetta dei tramezzini. Da mangiare c'era solo una torta di prugne, stava finendo agosto ma il sole era ancora altissimo e picchiava sul dehor, sulle tovagliette verdi, sui tovaglioli di carta. Stavo lì in silenzio, impalata.
A bere il mio caffè senza zucchero. A pensare al passato, al presente. A fantasticare, a sognare a occhi aperti, a leggere le notizie sul giornale a disposizione dei clienti, che poi era il mio giornale in quei giorni. Quando ho alzato lo sguardo e ho visto che accanto al pc di Alberto c'era un libro. Ho iniziato a fissare il libro. Pensavo che fosse una cosa buona da fare, una cosa giusta, anzi non mi ero posta la questione. Allora mi piaceva fissare gli oggetti. Non le persone, tanto meno gli occhi. Guardare negli occhi mi sembrava piuttosto una cosa folle e oltraggiosa. Mentre gli oggetti, meno eloquenti degli occhi, potevano invece svelare qualcosa di nascosto. Alberto ha sollevato lo sguardo e Beatrice ha smesso di pulire la macchina del caffè. Mi hanno sorriso insieme, senza aggiungere una parola.
E così sono stata io a dire qualcosa, a chiedere che libro era. Era un libro normale, un romanzo, edizioni Adelphi. Ok. Bene. Aloha, sembravano pensare, emanare i loro volti simili, i loro vestiti profumati. Comunque io lì mi sentivo come in riva all'oceano, come tra i gabbiani, e sarei rimasta dentro tutto il pomeriggio.
Così con Aloha nelle orecchie e nelle narici me ne sono tornata a casa. E ho cercato nella mia libreria blu. Tutto il giorno a cercare, poiché non avevo in progetto nessun'altra occupazione. Quando ho trovato un libro adatto, con la copertina verde, l'indomani l'ho portato ad Alberto e a sua sorella. Perché avevo capito che leggevano romanzi, che questa era una delle loro cose preferite, che passavano il tempo così, negli spazi vuoti, la sera, nei week end, in vacanza. Ma che ora avevano esaurito le idee, aspettavano qualche novità.
Tre giorni dopo, Alberto l'aveva già finito. Appena sono entrata: Aloha. Ha detto, ha pensato. L'ho letto. Mi è piaciuto. E ha cominciato a dirmi tutti i particolari di quel romanzo. "E quando lei va in..." "E tutta quella scena al mare" "E quando preparano un...". Ero confusa, travolta, sembrava un sonoro arcobaleno di dettagli.
Le pagine bianche e nere prendevano vita dietro al bancone. Alberto sapeva tutto, l'aveva letto tutto davvero, si era divertito. Vedevo il libro come al cinema. Aloha e profumo di frutta appena sbucciata. E me ne sono tornata di nuovo a casa mia. A cercare un altro libro. Ad aspettare il resoconto anche di Beatrice, poiché era il suo turno di lettura dopo il fratello. Ad aspettare così, che il mio gesto di prestare i libri germogliasse in tutte quelle immagini, e non ero mai stata meglio, e la vita mi sembrava una coroncina di fiori.