Marianne Moore, Le poesie, Adelphi |
Chiudete gli occhi e immaginate qualcosa di importante. Non dovrei dirlo, ma fidatevi di me.
A una lumaca è il titolo di una delle poesie più piccole e più belle di questa raccolta. Che mi è saltata tra le mani ieri, dopo tanto tempo che non la aprivo più, per caso, come la gran parte delle cose importanti della vita, o forse no.
Ho letto infinite volte alcune di queste poesie. Al punto che è stato facile ritrovarle nella memoria perché le avevo segnalate anche bene, con i post-it, con le sottolineature, lasciandoci dentro piccoli parafernalia: una foto in bianco e nero, un biglietto di teatro, con una data che coincide proprio forse con il momento in cui devo aver abbandonato alcuni dei miei libri in un angolo, convinta del contrario.
Su questo poi c'era già pronto sulla copertina il cerchio tondo lasciato da una tazzina, si vede che già leggevo bevendo caffè, come molti, a dire il vero.
Ho amato queste poesie (tanto quanto quelle della Szymborska). Con la stessa curiosità, la stessa ricerca di nutrimento, di sortilegio buono.
Mi ricordo ora e all'improvviso, mentre scrivo, di essere stata anche una lettrice più austera, più composta, più lieve. L'incanto che si creava tra le parole e la mia mente, e gli occhi, era di una qualità diversa. C'era un contegno sacrale, vestale, orientale in quello che facevo. Chissà se è capitato ad altri. Adesso ho più un atteggiamento da festa, da party, prendo il libro come un gioco, un diletto. Chissà se è normale. Chissà. Niente contro le feste, eh. Anzi. Forse ce ne sarebbe molto più bisogno.
Questi versi (non in rima e lo si chiarisce bene nella poesia dal titolo - ah, che titolo - Il passato è il presente, dove la Moore parla di Abacuc e lo fa come un ruscello di fonte cristallina) avevano un potere su di me incredibile, ipnotico, ipnagogico anzi - ovvero tipico di quelle immagini che sopraggiungono alla mente poco prima di addormentarsi.
Leggevo questi versi superiori, eleganti, ironici, coltissimi e poi di colpo elementari, chiari, come scritti su un quaderno di un bambino. E pensavo, pur non conoscendola, poiché è nata nel 1887 nel Missouri, vorrei essere lei, e con tutte le mie forze. Anzi, di più, vorrei che queste parole fossero le mie. E così, in un certo senso, è stato, perché alcune me le ricordo ancora a memoria. Ritrovare i propri libri della vita è la cosa più formidabile mi sia capitata, tra quelle belle. Come una finestra che si apre sul tuo vero paesaggio.
Ma poi, i titoli.
La mente è una cosa che incanta. Oppure Eppure. O ancora. La logica e "Il Flauto magico". O anche: "Digerisce durissimo ferro".
E ho anche ritrovato, è qui, è qui!, quel verso che credevo fosse della Szymborska, che ho sempre conservato da dire, che ho sempre detto a me stessa o agli amici quando ne avevano bisogno:
"come Pilgrim, costretto ad andar piano
a trovare il suo rotolo; stanchi ma pieni di speranza -
non essendo speranza la speranza
finché non sia svanito ogni motivo
di speranza; e indulgenti, pronti a considerare
l'errore del proprio simile
col cuore di una madre -
donna o gatta".
Donna o gatta in effetti non me lo ricordavo, neanche Pilgrim, ma la parte in mezzo della speranza sì, eccome. La poesia in questione si chiama L'Eroe. Niente meno.
Le parole, come le usa Marianne Moore. In un modo in cui, dopo averle lette, ti senti un genio. Ti senti al sicuro. Ti senti figlia e madre e saggia e, oddio, anche gatta, a quanto pare. Scusate.
Il lettore di questi versi si sentirà comunque baciato, dalla fortuna, depositario di rivelazioni piccole, luminose o filosofiche. Sì, è filosofia, è lavoro, è poi anche istinto purissimo, sembra di stare di fronte al lago più azzurro del mondo.
Poesie come discorsi, ciascuno su qualcosa di importantissimo, qualcuno di un difficile da stare male, altri leggeri come piume sulla guancia.
"Cagnolino che corri per il prato ad addentare la biancheria / e sostieni di aver preso un tasso".
Dolcezze infinitesimali che arrivano magari dopo una discettazione magniloquente sulla critica letteraria, nella stessa poesia, che si chiama Cogliere e scegliere. Consigliatissima.
Caramelle, a volte. Ma di quelle nutrienti. Un po' da farmacia dello spirito. Anzi, no. Di quei frutti piuttosto che ti vai a staccare nei boschi, rischiando di morire. E poi invece si scopre che sono i più vitaminici. Vitamine per la mente. E, ne sono convinta, anche un po' per il cuore e per i muscoli.
Perdonatemi. Per tutto questo amore. Ma lo dice la Moore stessa, nella poesia dal titolo Voracità e verità a volte sono interdipendenti.
"Si può - lo so - essere perdonati,
si può, per un amore senza fine".
E siccome abbiamo iniziato piano, con una lumaca. Finiamo leggendocela tutta:
To a snail
"Se 'la concentrazione è il primo dono dello stile',
tu la possiedi. La contrattilità è una virtù,
così come modestia è una virtù.
Non già l'acquisizione di una cosa qualsiasi
capace di adornare,
o la qualità incidentale che per avventura
si accompagni a qualcosa di ben detto,
non questo apprezziamo nello stile,
ma il principio nascosto:
nell'assenza di piedi, 'un metodo di conclusioni';
'una conoscenza di princìpi',
nel curioso fenomeno della tua antenna occipitale".
Dopo, ti senti un genio. Ti senti felice.
8 commenti:
Uuuh proprio a me citavi quelle parole qualche giorno fa, nella nostra passeggiata settimanale! Bellissimo post, tazzina, rigenerante.
@Zuccaviolina: :) Marta, che bello: sono contenta che ti siano rimaste impresse. Erano di questa meravigliosa poetessa!
Che tu sappia, in questo libro ci sono anche le poesie sui coltelli che la Moore doveva fare? Non ho mai capito se poi le scrisse davvero oppure no.
@Andrea: Poesie sui coltelli? Mi sfugge, non saprei risponderti...
Grazie, mi è venuta voglia di leggerla!
@ginevrapressenda: sono contenta :)
Non conoscevo questa poetessa; ti ringrazio per averla condivisa con noi. Gli stralci che hai condiviso sono meravigliosi!
@CamillaP: mi fa piacere. In effetti sono versi molto belli!
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