martedì 24 dicembre 2013

Raccontino di Natale - Natività.


Ed ecco il mio raccontino di Natale! 

Tanti auguri a tutti.


Sarei rimasto dentro molto più a lungo. Avrei prolungato l’attesa all’infinito. Non tanto per il senso di protezione che mi dava quel posto, che pure era consistente, quanto perché in verità non immaginavo proprio per niente che là fuori qualcuno si aspettasse – davvero – qualcosa da me. Stavo bene. Ma neanche bene. Stavo in pace. Sono un fiore nel deserto. Pensavo, sono una quasi-stella.

Mi piaceva, anzi no: mi rassicurava. E al tempo stesso tutto era così frastagliato, da mettere a posto come pezzi di un tangram. Avevo costruito una cucina immaginaria con piastrelle fatte di carta. Cose così, cose strane, fantasie che potevo permettermi, appunto, perché mi credevo solo, mi credevo sostituibile, vano e senza impegni.

– Solo per inciso, per tornare a tutta questa idea di me, a quando è stata concepita, dico che non era il caso che mi generassero. Loro due erano giovani, studiavano, non studiavano, si volevano, volevano me, e io non lo sapevo. Non volevo nascere, come nessuno vuole. Vivevano da soli, ciascuno per conto proprio. In piccole case-capanne con bicchieri singoli, tostapani arrugginiti, coperte di lana lise e piantine rigogliose, si chiamavano “amore” uno con l’altra come se non avessero un vero nome proprio, il che mi pareva davvero molto peculiare: non sentivo niente, eppure sentivo tutto quello che era allora  in mio potere di sentire.  –


Tutto pensavo tranne che uscendo avrei pianto. Tossivo dentro, respiravo lentamente e tossivo. Non avevo mai versato una lacrima, in solitudine. Difficilmente si piange da soli. Piangere è collettivo, è plurale, come mangiare. Infatti, lì, non mangiavo. Il cibo mi arrivava con un flusso splendidamente spontaneo, come la posta pneumatica. Tutto sapeva di antico, di giusto, e tutti i cibi di mia madre, di mia nonna, avevano una loro poesia, anche quelli più indigesti, anche la peperonata, il fritto misto, il profitterol, in quella mia magia della trasformazione erano niente altro che un nettare divino.

Da soli si resiste a tutto, si diventa forti. Mi sono chiesto perché tutto quel tempo a diventare forte, per poi crollare in un solo istante. A piangere con disperazione. In mezzo a tutte quelle lacrime.
C’era sangue e mia madre piangeva anche lei, mio padre mi ha preso tra le braccia e mi osservava come si guarda una persona che soffre ma che ha un bellissimo volto lo stesso.

Mi hanno visto uscire dalla sua pancia come un pesce. Tutti dicono che nascere è come essere pesci che di colpo devono vivere sulla terraferma.

Come si respira? Come si mangia? Troppo, troppo difficile, da piangere davvero. Ecco perché si piange.

Ma perché? Io dico. Perché quel male, quel freddo, quelle luci fredde, quelle fasce. Quel sapone, quelle polveri, quella compagnia perenne di sconosciuti.

Ora era il mio turno di qualcosa. Si capiva benissimo. Toccava a me fare. Assistere muto a quei doni scintillanti che mi venivano portati da tutte quelle mani screpolate, quei nasi rossi per il freddo di dicembre.

Non ho mai voluto nascere, ora mi toccava addirittura vivere tra la gente. Fare qualcosa per queste anime in pena, donargli una luce più splendente, una piccola speranza, una risposta. All’inizio bastavano i miei sguardi, i miei sorrisi li riempivano di gioia. Dopo poco, è stato necessario parlare. 

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