Partiamo dalla fine: è quasi bello uscire da un attacco di panico. E' come un eterno "scampato pericolo" cui noi impanicati siamo molto affezionati. Ci si sente stanchi, spossati e finalmente liberi da una morsa invisibile e per questo pericolosa.
Ed ecco invece come comincia: dal nulla, dal niente, dalla più normale, banale, semplice delle situazioni di vita. Una qualsiasi cena, un film al cinema, un caffé al bar. Niente di più impegnativo. E come prosegue: lì, nel mezzo del nulla, della più scontata quotidianità, si insinua una specie di dubbio. E se morissi? E se morissi ora? Tra cinque minuti? Tra due minuti? Il cuore inizia, da solo, ad accelerare. Ma così tanto e così forte che pare letteralmente impossibile frenarlo. Va, con la forza di un martelletto, una valvola difettosa, un tamburello stonato e impazzito. Accelera, accelera. E il dubbio si trasforma in realtà: "sto morendo", dice la voce, in affanno. Anche il respiro si affatica. "Sto smettendo di respirare?". Le domande restano senza risposta. Il primo istinto è alzarsi. In qualsiasi luogo ci si trovi, la spinta violenta è l'alzarsi. Il che apparirà innocuo. Così non è. Ad esempio: se stai guidando come fai ad alzarti? E dove vai? L'importante è infatti proprio "andarsene". In una parola: scappare. Da cosa o da chi non si sa. Da una presenza che è dentro di te e non fuori. E tuttavia lui, il panico, ti insegue. Se cambi stanza, lui è già lì, pronto ad abbracciarti male, a soffocarti. Io a quel punto mi prendevo sempre la faccia tra le mani, o mi ascoltavo il polso, in attesa, davvero, dell'ultimo battito. Chiudevo gli occhi e li riaprivo e vedevo tutto nero, tutto anzi di mercurio. A volte mi sentivo piena di acqua fredda. Come se la mia vita fosse gettata in mezzo al mare, alle onde burrascose e non sapessi più tornare a riva. Questo era, più o meno. Da qualche tempo i maledetti attacchi non mi perseguitano più. Vorrei solo dire a chi ne soffre che si può guarire. C'è davvero una speranza. Conto i giorni dall'ultimo attacco e sono tanti, aumentano, ormai ben più di un mese!
Ed ecco invece come comincia: dal nulla, dal niente, dalla più normale, banale, semplice delle situazioni di vita. Una qualsiasi cena, un film al cinema, un caffé al bar. Niente di più impegnativo. E come prosegue: lì, nel mezzo del nulla, della più scontata quotidianità, si insinua una specie di dubbio. E se morissi? E se morissi ora? Tra cinque minuti? Tra due minuti? Il cuore inizia, da solo, ad accelerare. Ma così tanto e così forte che pare letteralmente impossibile frenarlo. Va, con la forza di un martelletto, una valvola difettosa, un tamburello stonato e impazzito. Accelera, accelera. E il dubbio si trasforma in realtà: "sto morendo", dice la voce, in affanno. Anche il respiro si affatica. "Sto smettendo di respirare?". Le domande restano senza risposta. Il primo istinto è alzarsi. In qualsiasi luogo ci si trovi, la spinta violenta è l'alzarsi. Il che apparirà innocuo. Così non è. Ad esempio: se stai guidando come fai ad alzarti? E dove vai? L'importante è infatti proprio "andarsene". In una parola: scappare. Da cosa o da chi non si sa. Da una presenza che è dentro di te e non fuori. E tuttavia lui, il panico, ti insegue. Se cambi stanza, lui è già lì, pronto ad abbracciarti male, a soffocarti. Io a quel punto mi prendevo sempre la faccia tra le mani, o mi ascoltavo il polso, in attesa, davvero, dell'ultimo battito. Chiudevo gli occhi e li riaprivo e vedevo tutto nero, tutto anzi di mercurio. A volte mi sentivo piena di acqua fredda. Come se la mia vita fosse gettata in mezzo al mare, alle onde burrascose e non sapessi più tornare a riva. Questo era, più o meno. Da qualche tempo i maledetti attacchi non mi perseguitano più. Vorrei solo dire a chi ne soffre che si può guarire. C'è davvero una speranza. Conto i giorni dall'ultimo attacco e sono tanti, aumentano, ormai ben più di un mese!
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