Elizabeth Strout, Mi chiamo Lucy Barton, Einaudi |
Faccio un piccolo spoiler: Mi chiamo Lucy Barton finisce con questa frase:
La vita mi lascia sempre senza fiato.
Ed è l'ultimo frammento di una sequenza di "piccoli finali" che si estrinsecano in capitoletti sempre più corti, sempre più corti, sempre più corti ed essenziali fino a diventare quella frase. Assomigliano a tanti brevi respiri, quei capitoli, e la sensazione è proprio di fiato che si accorcia (chi è asmatico come me conosce molto bene la sensazione), qui però è tutto rovesciato: non manca l'aria perché si soffoca, manca perché ci è entrata ormai tutta nei polmoni, perché in questo romanzo c'è tutto ciò che è bene o doveroso sapere della vita, e dunque è un restare senza fiato per il dolore, la bellezza, la sensibilità, il talento.
C'è veramente tutto, in questo ennnesimo capolavoro di Elizabeth Strout che, dopo I ragazzi Burgess che era un romanzo lungo, approda a una storia breve, mi ha ricordato non so perché Magda Szabò.
Come l'Aleph di Borges è questa vita minima di una bambina che nasce povera e nel disagio estremo psichico e, seguendo un percorso credibile che non permette mai al lettore di disdire la fiducia nella scrittrice Strout (difficile per uno scrittore parlare di uno scrittore, dicono infatti sia la sfida più grande) diventa una scrittrice.
Lo diventa in modo organico, pulito, tradizionale: partecipa a un workshop di scrittura, manda i suoi racconti a una rivista letteraria, scopre una passione e una capacità che le fruttano denaro. Succede in modo lineare, come poteva accadere negli anni Ottanta, dove questa storia è in gran parte ambientata.
Tutto comincia in un letto di ospedale, in medias res rispetto alla vita della protagonista - Lucy Barton - ovvero quando lei sta per diventare una scrittrice famosa, ma non lo è ancora, ha due bambine e un marito, ma non lo avrà più, almeno non lo stesso, e non vede sua madre da tanti anni, quando questa donna, di punto in bianco:
- Mamma? - dissi.
- Ciao, Lucy, - disse lei. La sua voce mi parve timida, ma inderogabile. Si chinò e mi strinse un piede attraverso il lenzuolo. - Ciao, Bestiolina, - disse.
Compare la mamma ad accudirla, come fosse tornata bambina. Ma non aspettatevi pietismo: non è commovente questa scena perché non c'è una fantomatica "riappacificazione", c'è invece tra le più perfette forme di autenticità descrittiva delle relazioni ed emozioni umane che possiate trovare in un romanzo. Come avrà fatto la Strout a capire e a trasferire sulla pagina l'animo umano e in special modo quell'animo umano lì, resterà un mistero, un miracolo anzi.
Spesso, molto spesso, le narrazioni che riguardano il rapporto madre e
figlia hanno a che fare con gli ospedali, perché è proprio quando siamo
più fragili e soli che abbiamo bisogno di una mamma o, alternativamente,
di una figlia.
C'è una frase di Philip Roth che dice
pressappoco: "Quando nasce uno scrittore in famiglia, quella famiglia è
rovinata". Beh, questo romanzo sembrerebbe invece rovesciare l'assunto e
trasformarlo in:
"Quando nasce uno scrittore in famiglia, quella
famiglia è salva".
Ci sarebbe da discutere se siano le
caratteristiche peculiari di una famiglia a far nascere uno scrittore o,
al contrario, se sia il "miracolo" innato della mente dello scrittore a
rende una famiglia narrabile, narrativa. Il tempo e lo spazio sono
sempre troppo pochi per sviscerare tutte le questioni, questa però è
interessante. Nel caso di Lucy Barton, quella specifica famiglia pare toccata - per sommi capi e mi si perdoni la laconicità - dal male assoluto. Eppure Lucy trova una strada per uscire dal quel buio, magari soffrendo in ospedale, magari sbagliando, residuando un po' di questo male, distribuendolo senza volerlo, ma infine riesce a guarirne.
Ho seguito il livetweet del suo intervento al Circolo dei Lettori qui a Torino, per capire cosa dice, come, appunto, fa. E ho letto delle interviste, ma niente. A occhio e croce, non lo sa nemmeno lei. D'altra parte, è un mistero, nessuno sa svelarlo, dico il mistero della scrittura così giusta e accurata.
Tra le altre cose, ho letto che ha dichiarato ironicamente di essere l'unica donna americana ad amare Hemingway, e io avrei tanto voluto dirle che non è sola, che ci sono anche io!
E avrei voluto dirle anche che la leggo da tanto tempo e che - ancor prima che diventassero di moda gli youtubers! Bontà loro - posso vantarmi di aver realizzato ben due video, con tanto di musichetta di sottofondo - sul suo splendido Resta con me. Secondo solo, per lucida conformazione dei personaggi in totale purezza, al più premiato Olive Kitteridge.
Tutte queste cose non potrò dirgliele mai, ho pensato. Ma leggendo Lucy Barton ho anche pensato che la vita prende vie misteriose, che non sono necessarie tante parole per la felicità.
E in efffetti è soprendente notare come in questo romanzo ci sia tutto il mondo in poche frasi: dagli indiani d'America, alla strage dell'Aids, dalla violenza assoluta alla pietas, dalla miseria alla ricchezza esteriori e interiori all'11 settembre, dagli anni Sessanta ai giorni nostri, ci siamo noi, in effetti, bambini, adolescenti, adulti, anziani. In una parola, Elizabeth Strout sa pronunciare il mondo.
Questa è una storia piccola, ed è una storia epica. Una banale appendicite in un ospedale qualunque, in una famiglia qualunque, solo più misera della media, ma neanche troppo, diventa un'Odissea in cui l'eroina deve, vuole e può tornare a casa. Quale sia questa casa non si sa, ce ne sono alcune accennate, o meglio si sa con più precisione: è la scrittura.
Conforta che non bisogna essere per forza scrittori famosi per tornare a casa, la vita lascia alla fin fine tutti senza fiato, in tutti i sensi, da sempre e per sempre.
Traduzione perfetta di Susanna Basso. Perfetta copertina di Giordano Poloni.