venerdì 26 marzo 2010

Io, scrutatrice.

Come vi preannunciavo qui, domani inizia la mia avventura di scrutatrice: "un compito modesto, ma necessario e anche d'impegno", per citare Calvino.

Ne La giornata d'uno scrutatore. La storia è quella di Amerigo Ormea, "intellettuale comunista" che si impegna proprio in questa attività, nel 1953, all'interno di un "grande istituto religioso", il Cottolengo di Torino.
Questo è il libro al quale penserò molto nei miei tre giorni da scrutatrice e che rileggerò, se ce ne sarà il tempo, con grande attenzione. Intanto lo sfoglio qua e là, soffermandomi sulle frasi che avevo già sottolineato una volta.

"(...) altrimenti detto Piccola Casa della Divina Provvidenza - ammesso che tutti sappiano la funzione di quell'enorme ospizio, di dare asilo, tra i tanti infelici, ai minorati, ai deficienti, ai deformati, giù giù fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno di vedere. (...) Era un'Italia nascosta che sfilava per quella sala, il rovescio di quella che si sfoggia al sole, che cammina le strade e che pretende e che produce e che consuma, era il segreto delle famiglie e dei paesi, era anche (ma non solo) la campagna povera col suo sangue avvilito, i suoi connubi incestuosi nel buio delle stalle, il Piemonte disperato che sempre stringe dappresso il Piemonte efficiente e rigoroso".

Queste frasi, inevitabilmente, mi rimandano a un periodo ormai lontano della mia vita. Avevo sedici-diciassette anni. Forse l'anno stesso in cui ho letto il libro. Quell'anno mi capitò un'esperienza che ho portato dentro di me silente fino a oggi. Frequentavo il liceo - una scuola religiosa. Nella mia scuola era prevista un'attività di volontariato nel corso del penultimo anno Per me: "la seconda classico". Noi scolari lo chiamavamo il "volontariato obbligatorio". A ciascuno veniva affidato un compito, un luogo in cui recarsi settimanalmente a prestare - appunto - questo servizio di volontariato. Non era in effetti poi così facoltativo, nessuno, se non ricordo male, rifiutava questa proposta. A me capitò - o fui io a scegliere, questo l'ho dimenticato - proprio il Cottolengo di cui racconta Calvino nel suo romanzo.

"L'istituto s'estendeva tra quartieri popolosi e poveri, per la superficie d'un intero quartiere (...)".

Vero. Il Cottolengo è una vera città nella città. Un mondo a parte, con le sue regole, le sue leggi. Capitai allora, in quanto ragazza, in un reparto di donne. Queste pazienti non avevano una diagnosi: erano semplicemente donne anziane, abbandonate dalle famiglie quando erano bambine perché menomate in qualcosa - cieche, sorde, mute, paralizzate - spesso tutte queste cose insieme. Loro, mi spiegavano le suore, erano cresciute lì e non conservavano alcun ricordo del mondo esterno.
L'impatto per me fu devastante. Non avevo mansioni difficili. Dovevo servire a tavola, stare con loro, aiutare eventualmente a cambiarle, fare qualche massaggio ai piedi o alle mani che dolevano. L'impatto. tuttavia, fu tragico. Perché non conoscevo, a diciassette anni, alcun tipo di sofferenza fisica. A scuola, ad esempio, non c'erano ragazzi disabili. Nella mia classe il tasso di salute e bellezza era strabiliante e l'intelligenza contraddistingueva ogni alunno quasi come un marchio di fabbrica. Per dire: io stessa, che ero "normale", proveniente da una famiglia "normale", certe volte mi sentivo "sbagliata", "inferiore" rispetto ad alcuni compagni di scuola contraddistinti da qualità di ogni tipo assolutamente al di fuori del comune. La malattia, nella mia classe, non ricordo nelle altre, insieme alla deformazione fisica restava ampiamente confinata ai margini, se non proprio fuori dalle mura della scuola. Quindi quell'immersione improvvisa nel dolore nudo e crudo mi destabilizzò a maggior ragione. Quando tornavo a casa dal mio pomeriggio (non ricordo se uno o due la settimana) da volontaria piangevo nella mia stanza per lunghe ore. Nulla riusciva a calmarmi. Le immagini delle signore mi ritornavano alla mente in classe, di notte, quando ero sovrappensiero. Mi sentivo non so come intimamente vicina a quelle donne, a quel posto buio, alla loro piccola mensa. I loro oggetti, i loro sguardi, l'alfabeto muto che avevo imparato per comunicare con alcune mi spezzavano l'anima. Per liberarmi da questo, avevo anche provato a scrivere un raccontino. Ingenuo e semplicissimo. Una specie di articolo di giornale. Parlavo di una paziente, Luigina. La sua peculiarità era quella di salutare facendosi una carezza sulla guancia. Ma forse ero io che scambiavo quel gesto automatico per un saluto. Non so più. Come non so più chi ero allora, chi era quella ragazzina così sensibile a quel dolore. E soprattutto non so nemmeno io perché ora sto scrivendo di questa cosa. Non ci avevo mai più pensato. Finito l'anno, per me era finito tutto. Invece, la suddetta implacabile memoria - nel suo fantasmagorico mistero - assorbe, registra e restituisce esattamente ciò che vuole lei. E il mio nuovo senso di responsabilità di oggi, di trentenne, mi dice qualcosa. Mi dice di farne qualcosa, di questi ricordi. Di usarli per capire meglio il presente, il mio presente. Le contraddizioni della mia e dell'altrui vita. Il senso di quella "esperienza". Il senso di quello che vado a compiere domani. Il senso in generale delle cose che si scelgono. E infine cerco indizi su come comportarmi in futuro quando i diciassette, ma anche i trenta saranno lontani - indizi su cosa fare, ma più che altro cosa non fare.

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